Introduzione. Cristo è un avvenimento presente che rende l’uomo veramente umano in tutte le sue dimensioni: tempo e spazio, affezione, lavoro, società e storia. Per questo merita di essere non il primo, ma l’unico punto di vista da cui partire. Se non si capisce questo, tutto finisce nella morte; intuendolo, il tempo illumina sempre più la strada.
I Sottomessi all’esperienza
1. «Da sensato apprende...». L’uomo comprende lo spirito attraverso un’esperienza normale: l’esempio supremo è l’esperienza del «tu», con cui ci si può rivolgere all’Infinito come alla propria donna e al proprio figlio. Si possono dunque comprendere Dio e Cristo e approfondirne la conoscenza solo attraverso un’esperienza umana: quanto più se ne è ricchi tanto più si capisce. Questa è la testimonianza della verginità.
2. Lo «spostamento». L’inutilità del tempo che passa è data dalla mancanza di fede nelle parole che Cristo ha detto perché l’uomo le verificasse e dalla mancanza dell’umano teso a darsi ragione della propria esistenza. Fede ed esperienza non sono in opposizione, perché «la fede ti dice parole sulla esperienza più vere che non le parole che ti vengono dall’esperienza come tale». Occorre perciò uno spostamento dalla distrazione usuale verso le parole di Gesù e verso la propria esperienza, ricercandone il senso.
3. Impegnàti con la propria umanità. Poiché l’incontro con Cristo avviene in forma umana, è necessario impegnare con l’appartenenza alla compagnia la propria irrequietezza e coscienza, cioè la propria umanità, constatandone il cambiamento. «Incontro» e «appartenenza» si identificano: la prima parola sottolinea la novità di un rapporto, la seconda che esso condiziona il cammino e il suo destino. Similmente «avvenimento» indica il mistero dell’origine della compagnia, mentre «avventura» introduce il mistero del destino verso cui tende l’impegno della propria umanità.
II Attraverso le creature
4. Cristo e le stelle. «Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, vogliamo anche la donna [...] vogliamo tutte le creature!». Rispetto all’incandescenza per il fine (Cristo solo), questa seconda strada, che ricerca nelle creature il segno del Creatore, è pedagogicamente più adeguata alla debolezza umana. Il rapporto con Cristo si capisce, infatti, dentro la carne: «Pur vivendo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio» (Gal, 2,20). Così il limite delle creature, ordinato al fine, diventa occasione di libertà.
5. Il gusto della singolarità. Dall’apertura alla totalità che si è resa presente in Cristo deriva l’apertura alla singolarità, come è espresso sinteticamente dalla liturgia: Signore, ti preghiamo «perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio». «In ogni cosa» indica la singolarità, «sopra ogni cosa» la totalità: dalla prospettiva totale, affermata attraverso il sacrificio, deriva un gusto del particolare che supera ogni desiderio.
6. Nel particolare il tutto. Due sono gli errori in un rapporto: non viverlo secondo i valori morali (cioè la forma dettata dalla memoria di Cristo) e dimenticare il nesso di quel particolare con la totalità (personalismo). Invece l’amore è riconoscere nel particolare il tutto: per questo si può essere lieti in ogni circostanza, perché Cristo coincide con il rapporto che si vive. Come per gli apostoli, è guardando Cristo che nasce l’amicizia tra chi Lo segue ed è eliminato il risentimento verso se stessi e gli altri.
7. In ogni cosa, sopra ogni cosa. Se non si capisce in che senso Cristo è tutto si resta schiacciati dall’astrattezza. Occorre domandare allo Spirito, che può far capire ciò secondo le parole della liturgia, che chiedono di amarLo «in ogni cosa e sopra ogni cosa». «In ogni cosa» significa che Cristo è la consistenza di ogni presenza incontrata: questo la esalta e realizza la carnalità della Presenza di Cristo. «Sopra ogni cosa» sfonda il limite della presenza, perché «indica la profondità del movimento per cui quella presenza è fatta [...]; questo movimento [...] è l’essere amato». Qui sta l’origine dell’adorazione di ciò che si ama e il desiderio di riconoscere che Cristo è la consistenza di tutto.
8. Ricerca e attesa. Nella vita quanto più si domanda tanto più, paradossalmente, aumenta l’attesa, perché la prospettiva della realtà è infinita. Così la verità della ricerca scientifica è paragonarsi con l’infinito, mossi dalla passione verso l’uomo a servire il suo cammino: la ricerca diventa carità. La gloria di Cristo significa che risplenda agli occhi di tutti il disegno del mondo, cioè Cristo, «riso de l’universo» (Dante).
III Il centuplo quaggiù
9. Come potrà essere? Don Giussani chiede cosa significhi la frase «Chi soffre con me avrà il centuplo quaggiù». Rifiutando risposte astratte, rinvia i presenti all’incontro successivo, chiedendo di riflettere sulla propria esperienza. L’incomprensione della frase «Chi abbandona sé, si ritrova» è all’origine della concezione menzognera del cristianesimo come desiderio di sofferenza, così diffusa nella mentalità moderna. Invece il senso della frase è: «Chi abbandona sé per me»; si tratta cioè di un amore. E l’amore ha la sua origine nell’accettare un dono, altrimenti diventa la pretesa di creare per l’altro.
10. Il compimento dell’umano sentire. «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). La vita eterna è «il compiersi del sentimento che tu vivi nell’umana esperienza, attraverso una condizione di sacrificio che tu accetti». «Cento volte tanto» vuol dire un’esperienza umana cento volte più intensa nell’aldiqua. Il sacrificio è accettare di guardare come Cristo, e avviene solo per l’amore a Lui, che è la vita eterna e il centuplo. «Essendo fatti di carne, il rapporto con Cristo incomincia dalla carne, [...] “Pur vivendo nella carne, io vivo nella fede”».
11. «Un’altra sei, più bella». Commentando alcune poesie di Ada Negri, Giussani descrive l’esperienza del centuplo. È impossibile capire come avviene il centuplo, mentre si possono esplicitare le ragioni per cui l’esperienza cristiana è «cento volte tanto»: si ama l’altro senza esigere di essere riamati, perché c’è; lo si ama di più; si ha una coscienza di sé cento volte più grande, come miseria e come vocazione e compito. L’amore a Cristo perché c’è si esprime nel sì di Pietro (Gv 21, 16-17), che è permanenza nello stupore originale di fronte all’essere.
12. Dalla resurrezione una generazione nuova. La resurrezione di Cristo, riconosciuta, genera un uomo nuovo. In questa esperienza vera si entra seguendo, cioè domandando qualcosa che non si può mai misurare fino in fondo. È un possesso inesauribile che avviene nell’umiltà: la percezione del proprio nulla e della ricchezza incommensurabile dell’io donata da un Altro. Nel dolore per il proprio errore si afferma l’ideale, giungendo a un sentimento sempre più profondo di Cristo.
13. L’esaltazione della realtà. La resurrezione di Cristo permette l’esaltazione della realtà, perché è la prova suprema del suo rapporto con l’infinito. La resurrezione di Cristo diventa contenuto dell’io nell’appartenenza a Lui, cioè alla compagnia vocazionale. L’appartenenza − la cui legge è l’obbedienza − decide perciò il contenuto di una personalità (definita come «maturità responsabile») come cultura e moralità.
IV La gloria umana di Cristo
14. Vivere come intensità. L’intensità del vivere è lo struggimento per la gloria di Cristo − perché Cristo sia conosciuto − che si esprime nell’offerta; è attraversare tutto di corsa coscienti di questo scopo comune che sostiene l’impegno. In tale passaggio dalla fede alla speranza sta il compimento dell’affezione e la radice di una letizia consapevole.
15. S’accende la speranza. La speranza nasce dalla fede quando l’uomo, in forza della fede, si aspetta che Gesù risorto cambi lui e il mondo. Se il contenuto della speranza è l’affermarsi totale della personalità per l’eternità, questo implica la lotta nel mondo per una personalità più compiutamente vissuta. La radice della speranza è il sì di Pietro (Gv 21, 16-17), perché «Egli solo è».
16. La densità dell’istante. Un’affezione che non abbia una ragione sufficiente, cioè che non sia in funzione del destino, svuota l’istante. Perciò la presenza di Cristo è l’unica prospettiva che dà densità all’istante e permette che l’altro non sia un pretesto per il proprio egoismo, ma il vero termine del rapporto. In ogni istante è possibile così abbracciare tutto il mondo, perché ogni azione può essere offerta per la gloria di Cristo. Non si può capire come avvenga che, persino mangiando, si serva l’universo, ma questo non deve oscurare la verità ontologica del fatto.
17. «Costruire il Tempio». «Tutte le circostanze sono in sé amabili», ma l’uomo può riconoscerle tali e utilizzarle solo se vive il rapporto con il Creatore, partendo con un’ipotesi positiva sulla realtà. Perciò la mentalità cristiana è quella che più favorisce l’uso della realtà nella sua totalità. La vittoria di questa concezione più vera, portata nella storia dalla Chiesa di Cristo, può manifestarsi o no, secondo il disegno di Dio; ma la certezza di essa spinge a ricostruire sempre ciò che è stato distrutto, senza trionfalismo. Il contrario è adattare l’annuncio cristiano ai canoni della mentalità moderna.
18. Il progetto della storia. I progetti umani falliscono, perché sono particolari, mentre il progetto della storia è unico e ha un nome: Gesù. Fare memoria di Cristo e offrire il proprio lavoro significa abbracciarlo riconoscendo che esso trae valore dal tentativo di partecipare al progetto di Cristo. Fare ciò quando il lavoro ferisce è ancora più grande. «È più facile essere razionali che vivere la fede»: impegnarsi per ciò che appare buono e giusto è più facile dell’ammettere che la pienezza viene dal fare «per Cristo». La ragione prova infatti difficoltà nell’aprirsi alla fede. Così nell’operare per Cristo c’è un momento in cui sembra di perdere tutto aprendosi alla totalità.