Introduzione. L’Infinito non è un finito che si allarga indefinitamente, ma una realtà cui ci si può rivolgere con la parola «Tu», per analogia con il «tu» detto agli altri quando li si conosce come «altri» da sé. Dal Tu infinito nascono sia l’io sia il tu, scoperti così come finiti e infiniti insieme.
I Natura dell’amicizia
1. L’amicizia di don Corti. Rievocando l’amicizia con Gaetano Corti, suo insegnante in seminario, don Giussani si sofferma sulla possibilità di amare senza ritorni, quando il rapporto è fatto da due soggetti, cioè due io. «Io» designa i fattori che in partenza sono comuni a tutti gli uomini, mentre il nome di ogni io ne indica la vocazione e la storia: il nome è perciò il compimento dell’io.
2. Leopardi per amico. L’autorità, per esempio Leopardi, è chi rappresenta quello che l’io sente meglio di quanto saprebbe fare lui stesso. Perciò l’autorità è un’estasi, cioè fuori dall’io: comprendendone le ragioni, la si interiorizza divenendone amici, per la percezione di un vantaggio. Cristo nel mondo moderno non è più autorità perché non se ne cercano le ragioni: si impiega infatti un concetto di ragione solo analitica, mai sintetica. «La fede», invece, «è la festa della ragione».
3. Reciproco aiuto al destino. Domanda e risposta si illuminano reciprocamente. Come l’Infinito, così la realtà è irriducibile alla propria misura: è compagnia un rapporto con la realtà non ridotto, che aumenta la domanda. Quando questo rapporto avviene tra persone è amicizia: «il fenomeno dell’amicizia supera la barriera del suono», cioè il limite dell’esperienza, divenendo compagnia guidata al destino: gli amici si richiamano reciprocamente al destino, vivendo l’amicizia come obbedienza: l’io afferma l’altro per affermare sé.
4. La natura dell’Essere è comunione. Il dogma della Trinità spiega perché quanto più l’uomo afferma un altro tanto più afferma sé stesso. Se l’Essere è uno l’origine della domanda religiosa è la mancanza, se è trinitario – cioè un rapporto drammatico – è invece l’attrattiva. Il rapporto col Mistero dipende perciò dal Suo comunicarsi: all’uomo tocca riconoscerLo, domandarLo e imitarLo. Si abolisce la pretesa nei rapporti, che è l’eliminazione della distinzione tra il soggetto e l’altro.
II Sulla preferenza
5. La preferenza come obbedienza. Dire «Io credo in Te» è dire «Io sono scelto qui e ora»: partire dal rapporto che più corrisponde qui e ora – inesauribile novità – fa risorgere il gusto dell’essere come segno di Cristo. Questa preferenza è un’obbedienza, perché implica il riconoscere e affermare un altro che corrisponde a sé. Perciò «la preferenza è qualcosa di originale come l’essere».
6. I paradossi della preferenza. La compagnia è il metodo scelto da Cristo per farsi conoscere: bisogna domandare che ne diventi segno. Questa dinamica ha aspetti paradossali: Cristo preferisce alcuni per farsi conoscere da tutti; parallelamente, attraverso la preferenza si impara a voler bene a tutti; la compagnia e la preferenza sono la massima sorgente di gioia e di sacrificio: un sacrificio che è amore.
7. L’autorità diventa una preferenza. L’autorità è una presenza che richiama inevitabilmente a Dio, eccezionalmente, normalmente o per il ruolo che svolge. Soprattutto quando il richiamo è normale, essa tende a diventare preferenza: la preferenza personale dettata dall’amore a Cristo porta con sé anche quella sentimentale. Riconoscendo Cristo si è posseduti da lui e si possiede tutta la realtà, con un distacco dentro: «si possiede totalmente l’altro quando si abbandona qualcosa con sacrificio».
8. La preferenza porta il senso del tempo. Se l’io tenta di definirsi fuori dalla propria vocazione cade nell’astrattezza, perché è attraverso di essa che diviene fattore del tempio. Il tempo, infatti, diventa tempio in un incontro di amicizia che ne comunica il senso e, per questo, si pone come preferenza. L’amicizia è l’esperienza paradigmatica dell’amore a Cristo.
9. Dalla preferenza un popolo. Come si stenta a comprendere che il lavoro è seguire con continuità l’opera di un Altro, così c’è ostilità verso l’idea di preferenza, perché significa affermare il primo aspetto dell’essere che emerge nell’esperienza. Partendo invece dalla preferenza, si originano altri rapporti preferenziali, creando una compagnia e un popolo. Attraverso l’incontro (preferenza) con la compagnia si giunge a riconoscere Cristo.
III L’esperienza del tu
10. Dire «tu» è domandare. Si può dire «tu» solo a chi compie l’io: è il «Tu» a Cristo, che implica il «tu» di coloro cui si è svelato. Nel dire «tu» si genera l’unità dell’io, da cui nasce l’unità della compagnia, che a sua volta salva l’unità dell’io. L’uomo è creato libero, cioè capace di riconoscere il «Tu»: questo si esprime naturalmente come domanda, ma che la dinamica non si corrompa è una grazia. La maturità della libertà è riconoscere che tutto è grazia, cioè è amare.
11. Affermare l’altro per affermare sé. Nell’affermazione dell’altro, resa vera dal sacrificio, l’io afferma sé. Questa è la responsabilità, innanzitutto verso il Tu di Cristo, che fa accettare anche il tu dell’altro: amare l’altro, infatti, è possibile solo rispettandone il destino. L’unità è resa possibile dal destino comune all’io e al tu, che hanno strade diverse per giungervi. Il fondamento di questa dinamica è il fatto che Dio per affermare sé ha affermato l’uomo, dandogli l’essere: la libertà si gioca perciò nell’affermare gratuitamente la positività dell’essere.
12. Sentirsi dire «tu»: la scoperta dell’io. L’io scopre se stesso sentendosi dire «tu» in un modo che lo commuove. Per questo il contenuto dell’io coincide con la decisione della libertà di conoscere e amare il vero, cioè un tu. L’esperienza del Tu di Cristo rende disponibili all’altro e ne fa cogliere la disponibilità a sé, creando l’amicizia che tutto sopporta, cosciente di partecipare alla croce di Cristo.
13. Il segno supremo del Mistero. Il tu è il segno supremo del Mistero, cioè di Cristo: l’immagine ultima di tale segno è il tu sponsale. La domanda è l’espressione originale del rapporto col tu. Il formalismo, invece, è trattare «bene» senza affezione, affermando un principio invece che amare una presenza. Il formalismo giudica la persona, mentre chi parte da Cristo giudica l’atto accogliendo la persona: solo questo sguardo di misericordia (innanzittutto su di sé) tiene conto di tutti i fattori.
14. L’albore del noi. Il tu è un imprevisto riconoscendo il quale l’io si avvera. Dal tu si genera il noi, perché l’amicizia vera apre a tutti. Questa esperienza umana è l’albore dell’amore al tu di Cristo, che colloca l’uomo nella storia come parte del suo corpo. Donarsi totalmente a Dio per gli uomini è vivere la verginità e, di conseguenza, la fecondità.
IV Dalla simpatia profonda la morale
15. La simpatia profonda (1). Nell’amicizia, obbedire perché è giusto farlo è moralistico; farlo perché piace rende schiavi e non dura. San Pietro ha obbedito a Gesù perché, dal riconoscimento che Lui è vero, è nata una simpatia profonda. Lo sforzo morale parte da questo attaccamento e si esprime come immedesimazione. Così la legge del vivere non è il fare, ma l’amare.
16. La simpatia profonda (2). Si riconosce il vero perché c’è, ma – ancor più profondamente – perché sia strumento di amore all’altro. «L’amicizia è il luogo dove l’amore al destino dell’altro è costitutivo del vivere insieme»: partire da questo, per quanto misterioso, e non dalla necessità di aderire al vero rende più morali (cfr. Gv 21). La moralità che nasce dalla simpatia profonda si svolge dalla pienezza iniziale di un incontro: per questo ha come suprema nota la memoria. In tale dinamica non c’è differenza tra amare Dio e amare l’altro.
17. La simpatia profonda (3). La preferenza nasce dallo stupore per il vero che si impone. L’affermazione del vero è gratuita, perché l’unica ragione dello stupore è l’evidenza di una corrispondenza al cuore. L’uomo ha paura dello stupore del vero quando qualcosa di cattivo ed estraneo lo porta a odiare sé: ma l’odio di sé non può competere con lo stupore del vero. Dallo stupore nasce il lavoro della vigilanza, per immedesimarsi continuamente con la presenza che si è rivelata (memoria).
V Epilogo
18. Rapporto col Mistero. Il Mistero non è un finito che si dilata indefinitamente, ma una realtà inimmaginabile. Per non ridurlo alla propria misura bisogna usare con esso la parola più significativa per l’uomo: il «tu». Dire «tu» a chi si ama, infatti, introduce un rispetto per qualcosa di incommensurabile. Il «Tu» a Dio implica il dire «tu» all’altro, e viceversa: il «tu» detto all’altro, perciò, dà pienezza in quanto segno supremo del vero Tu. Vivere la realtà come segno dipende dalla coscienza dell’io: perciò nessuna circostanza può impedire all’io di essere provocato come intelligenza e libertà.