Il pensiero di Reinhold Niebuhr (1892-1971) risponde alla crisi del movimento del Social Gospel, l’espressione più completa del protestantesimo americano immigrato dall’Europa fino alla seconda guerra mondiale.
Di fronte allo sviluppo scientifico e industriale il Social Gospel enfatizzò il carattere esclusivamente umano del cristianesimo e un ottimismo lontano dal realismo pessimista della Bibbia. Il secondo conflitto mondiale segnò il declino del Social Gospel e la nascita di un movimento (“neo-ortodossia” o “nuovo realismo”) che interpretò secondo il temperamento empirico americano i motivi fondamentali della teologia dialettica europea.
Niebuhr fu protagonista di questo movimento. Alla formazione del suo pensiero contribuì il ministero parrocchiale in una chiesa evangelica a Detroit, dove scoprì il lato oscuro del celebrato progresso: il sacrificio umano dei lavoratori.
L’antropologia di Niebuhr, di ispirazione biblica, considera l’uomo come unità di due elementi opposti e irriducibili: finito e infinito. Ciascun uomo, nella propria unicità, è responsabile di sé: il male che compie non è necessitato dalla struttura umana, ma occasionato responsabilmente dalla volontà che attua l’io. La storia consiste nell’instancabile tentativo, individuale e collettivo, di superare i propri limiti verso una progressiva realizzazione dell’ideale (perfezione personale e giustizia sociale). La rivelazione della misericordia di Dio dona all’esistenza la sicurezza necessaria per questo tentativo. Una nuova sintesi della Riforma (che enfatizzava l’incompletezza della natura umana) e del Rinascimento (che sottolineava il valore della libertà) era compiuta.
Niebuhr sottolinea una discontinuità tra Dio e l’uomo: Dio è completamente fuori dal mondo, e lo “tocca” tangenzialmente in modo puntuale, in modo da non implicare mai la presenza del divino nel contingente. Questo fa nascere due problemi nella teologia di Niebuhr: da una parte il divino, descritto come parte dell’essenza di ciò che esiste, sembrerebbe inassimilabile a ciò che esiste; dall’altra è difficile immaginare un possibile compimento finale dell’uomo che non sia una completa dissoluzione dell’io storico.