1984
Qualcosa d’altro che entra in gioco
Nelle comunità del CLU nel 1984 si poteva costatare un fermento positivo che aveva generato una fioritura della presenza cristiana in università. Tale fioritura, osservava Giussani nell’assemblea, era dovuta alla fedeltà con cui si era vissuto il messaggio proposto dal cammino educativo del Movimento. S’imponeva, dunque, la domanda su come potesse continuare questo fenomeno di cambiamento umano che era iniziato nei mesi precedenti: «Come andare avanti?» era la domanda che tornava spesso negli interventi e nelle sottolineature di Giussani. Il cambiamento non può essere affidato per la sua continuità alla capacità di tenuta etica del soggetto, ma ha un’altra sorgente indicata, allora, precisamente dal contenuto del secondo Volantone di Pasqua (Le Christ est ressuscité). La permanenza del cambiamento è data da qualcosa di oggettivo che è già presente nell’esperienza. Si chiama “Cristo risorto” il nome di questa sorgente inesauribile da cui sgorga la novità permanente dell’essere. Lo sforzo morale diventa, allora, partecipazione al fatto di Cristo presente qui e ora. Se Cristo non è presente ora, infatti, il soggetto torna inevitabilmente a essere niente. Questa allora è, come osserva san Paolo, «la vittoria che vince il mondo»: la fede, cioè il riconoscimento della contemporaneità della Sua presenza. Da questo riconoscimento e dalla sua permanenza (memoria) nasce continuamente il cambiamento del singolo e quindi della comunità. Il luogo sorgivo di questa memoria è il segno della vittoria di Cristo nella storia: la comunità cristiana viva. Frequentare ed essere fedeli a questo segno coincide con il metodo del cammino della promessa del centuplo quaggiù. Chi vive quest’appartenenza, inoltre, è capace di rischiare una proposta di fronte a tutto il mondo proprio perché essa identifica l’avverarsi dell’umano vero.
Nel tempo e nello spazio
La provocazione di un gruppo di anarchici ad alcuni universitari del CLU, riportata durante l’assemblea, circa la presunta astrazione del Volantone di Pasqua di quell’anno aprì il problema su cosa significasse vivere l’hic et nunc. Chi parte dalla presunzione ideologica di una propria perfezione morale deve eliminare il dato esistenzialmente più evidente: l’emergere del proprio limite. Per il cristiano, invece, il limite è la condizione esistenziale per un cammino e, quindi, non si pone come obiezione perché è il luogo dove opera una Presenza. Si può, tuttavia, correre il rischio di annunciare Cristo risorto permanendo nella pesantezza che nasce dal limite sperimentato. Si comunica Cristo cioè, ma si vive tristi e appesantiti come tutti. Ciò significa che Cristo è ancora un’affermazione teorica che non ha a che fare con il presente: è una Presenza non presente. Solo se Egli è presente, invece, è capace di rendere il limite un «seme che fermenta nel tempo». Tale differenza è svelata da un indice esistenzialmente rilevabile: la letizia. Essa costituisce il test infallibile, il criterio di valutazione della posizione vera del cristiano. La provocazione del Volantone di Pasqua aveva mostrato, inoltre, come in tanti universitari la domanda «Credi tu questo?», posta da Gesù a Marta, era divenuta una domanda personale dalla quale si era sprigionata un’azione nuova. Dalla costatazione di questo fenomeno si era posta la domanda su cosa fosse veramente la libertà come «fatto culturale», cioè come posizione della persona di fronte alla totalità della realtà. Giussani la identificò come la capacità affettiva di aderire alla delectatio victrix, al fascino suscitato dalla Verità presente. In questo senso la libertà coincide con quella posizione originale che accoglie una presenza che rende vera la propria umanità. Come questa libertà si perfeziona? Si «va avanti appartenendo a ciò che fa andare avanti». Quanto più si appartiene a quella presenza che rende vera l’esperienza tanto più si è nelle condizioni di camminare. Perciò, qui si dimostra il paradosso cristiano: quanto più si dipende tanto più si è liberi. Questa presenza è Cristo risorto, l’unico in grado di investire il tempo raggiungendo la fragilità dell’hic et nunc per liberarlo e redimerlo. La forza con cui Cristo risorto investe il tempo e lo spazio e rende l’uomo se stesso, permettendogli di camminare sicuro, si chiama Spirito Santo. Tale energia abita nel segno di quella Presenza che è la comunità cristiana. Per questo il «linguaggio della comunità è la testimonianza», cioè fatti e persone che documentano una Presenza all’opera che rende l’umano finalmente se stesso («vivo, non io, è un Altro che vive in me»).
Colui che è tra noi
La sfida contenuta nella domanda posta da Gesù a Marta («Credi tu questo?») fu rilanciata da Giussani con un’altra domanda: come si può rispondere «sì» a questa domanda di Cristo? Il primo strumento, la prima condizione da mettere in atto per rispondere è la libertà che è attaccamento al bene, capacità di adesione al vero. Insorge spesso, però, un’obiezione: che la libertà così intesa sia una cosa complicata. La prima movenza della libertà, tuttavia, si chiama domanda, perciò non dire «vieni!» a Cristo significa mentire a se stessi, cioè non riconoscere il vero presentito. Questa domanda è talmente descrittiva della natura della libertà che non ha bisogno di condizioni particolari per realizzarsi. Il secondo fattore per dire «sì» è una storia, un incontro. Senza l’incontro con una compagnia precisa la libertà non avrebbe, infatti, percepito Cristo come un bene per sé, come ciò che può guarirla dalla sua paradossale volontà di smarrimento. La compagnia cristiana è il luogo dove diventa possibile questo «sì» personale a Cristo. Da dove si può pescare l’affettività intensa e creativa che descrive le radici più profonde del nostro essere? Si chiama dono dello Spirito – terzo fattore – questa affettività. Lo Spirito è quell’energia con cui Cristo risorto interviene nella storia per ricreare continuamente le cose create. È lo Spirito, perciò, che suggerisce l’impeto affettivo che fa domandare «vieni» e che fa rispondere «sì» alla domanda di Cristo. Non è dall’uomo, infatti, che la libertà come affezione e adesione al vero e la storia come compagnia nascono, ma dallo Spirito Santo. La vita del cristiano che vive questo «sì» a Cristo, allora, è descritta da tre dimensioni. La gratuità, come frutto di una vita vissuta nella gratitudine per quello che si è incontrato; l’appartenenza al fatto di Cristo, che è la Sua compagnia, come definizione di sé; il riconoscimento che, dentro quest’appartenenza, tutto, anche il male, diventa bene.
1985
Attraverso un cambiamento
La vita è continuo cambiamento. Occorre registrare che, per natura, le cose sono destinate inevitabilmente a una parabola discendente. Il cuore dell’uomo, tuttavia, è attesa di qualcosa di veramente nuovo, di un “miracolo”. Il primo vero cambiamento è quello dell’autocoscienza. Occorre, infatti, rendersi conto che l’essenza del proprio soggetto è appartenere a un Tu che continuamente lo crea. Varcare la soglia dell’avvenimento dell’appartenenza, perciò, significa iniziare a entrare nell’avvenimento dell’io. La fragilità che spesso si sperimenta quando si è da soli è indice della mancanza di personalità, cioè della mancanza di una coscienza di sé come appartenenza. La coscienza di sé come appartenenza implica due osservazioni. Innanzitutto, il “seguire” è il metodo di questa scoperta: solo l’incontro con Dio presente, infatti, permette all’uomo di capire e vivere il suo “essere” creatura. Il “seguire”, infatti, implica sempre una realtà di rapporti. Perciò, l’appartenenza come definizione di sé è a Cristo presente, che è la Sua compagnia. In secondo luogo, fidarsi del Movimento si traduce sempre in un impeto missionario che è una vita (l’avvenimento di una presenza) che è proposta a tutti.
Da una logica di gruppo a una coscienza personale
Il Fatto che Cristo esista è la decisione di tutta l’esistenza. L’imperativo che s’imponeva al cammino delle comunità del CLU in quel frangente storico era il passaggio da una logica di gruppo a una dimensione di coscienza personale. Il contenuto di tale coscienza può essere identificato con la parola “appartenenza”: la definizione della natura del soggetto è un Altro. Spesso si sperimenta una sproporzione tra il contenuto di questa parola e il proprio grado di esperienza. Cosa colma questa distanza? Innanzitutto, la domanda, cioè quell’apertura attiva e creativa del cuore di fronte all’Essere. In secondo luogo, la Scuola di comunità, ovvero quell’avvenimento di ricerca in cui uno si trova implicato con altri nel tentare di realizzare una posizione più umana. Il passaggio alla dimensione di coscienza personale, tuttavia, non implica una diminuzione di valore della comunità. Al contrario, ciò che incide veramente sulla storia è la comunità come amicizia, cioè quella comunione di uomini che riconosco Cristo, il destino, come il significato di tutto ciò che fanno. È la comunità così intesa, infatti, il luogo che sostiene la persona quando percepisce la sproporzione sopraccitata, perché rende possibile vivere la domanda e aiuta a prendere sul serio il lavoro della Scuola di comunità. L’esito di questa amicizia, quando è vissuta in tutta la sua profondità, si chiama metànoia, ovvero cambiamento di mentalità. Tale conversione è l’indice che esprime l’inizio di un’appartenenza vera al Fatto di Cristo. Questo cambiamento di nous ha una triplice implicazione: fa fiorire nel soggetto un atteggiamento nuovo di fronte a tutte le circostanze della vita, rendendola più bella e gustosa; fa comprendere che l’unica logica dell’impatto con le circostanze è imparare ad amare di più il Fatto incontrato, cioè quella modalità storica con cui Cristo si è mostrato (l’alternativa a questo è soccombere alla logica del potere); fa vivere quell’ascesi che la Scuola di comunità chiama «dramma dell’affettività», cioè il riconoscimento, di fronte a qualsiasi circostanza personale, in particolare quelle difficili, che c’è qualcosa di più grande che viene prima. Appartenere a Cristo fa accettare, perciò, il sacrificio implicato nel vivere. Questa conversione della mentalità rende la personalità del cristiano fattore creativo di una cultura nuova
La grazia di un incontro
«Voi chi dite che io sia?». Questa provocazione fatta da Cristo agli apostoli li costrinse a passare da una logica di gruppo a una responsabilità di coscienza personale. Il contenuto di questa presa di coscienza personale era la grazia dell’incontro accaduto. Tale dinamica è identica per il cristiano oggi. Dio è diventato un uomo: questa è la questione fondamentale della vita. Perciò il primo compito da realizzare si chiama “memoria”, cioè il riconoscimento di una presenza iniziata duemila anni fa, ma presente qui e ora. Esiste un handicap per il cammino cristiano e si tratta dell’idea diffusa di perfezione e coerenza. Spesso, infatti, la mentalità corrente identifica la “perfezione” come una capacità di riuscita personale e perciò si è costretti a barcollare tra due atteggiamenti: la presunzione o la disperazione. Per il messaggio cristiano, invece, la perfezione non è l’esito finale del cammino umano perché, intesa come soddisfazione vera, come felicità, è il rapporto con un Tu già presente nel cammino. Perciò essa si attua esistenzialmente come rapporto riconosciuto e accettato con Cristo presente. La coerenza, per il cristiano, infatti, è un avvenimento di grazia in cui Cristo dimostra la Sua potenza nel tempo e nello spazio. L’esito attivo della memoria si documenta come una responsabilità che è domanda («Vieni, Signore Gesù!»). Il cristiano, dunque, non è indifferente al bene e al male, ma, nella percezione del proprio niente, mendica. Chi vive questa intensità di memoria non può non riscoprire il valore della comunità come luogo della continuità di Cristo. Egli si fa presente, infatti, attraverso una “casualità” di rapporti. Questa riscoperta porta con sé tre corollari. Primo, la gratuità come caratteristica morale di una vita in comunità. È, infatti, una grazia che la comunità cristiana esista. I caratteri più descrittivi di questa gratuità sono un’unità senza confini e una fecondità capace di rigenerare tutto. Secondo, la comunità intesa o come continuo avvenimento o come continuo tradimento. Questo fattore non dipende, però, dalla comunità ma dallo sguardo del singolo come frutto di una memoria vissuta. Terzo, la vita come sequela. La comunità, infatti, è la logica con cui opera il singolo. Per chi è stato toccato da Cristo, perciò, il contenuto della propria memoria si sprigiona nel rapporto con la realtà. È l’impatto con le circostanze, che costituiscono la trama della vocazione personale, infatti, l’ambito in cui si sviluppa la creatività personale. Al soggetto, perciò, sono richieste innanzitutto una serietà e una lealtà nell’impatto con la realtà. In secondo luogo, tale serietà porta con sé una responsabilità, cioè una risposta alle problematiche poste dalla realtà stessa. Tale risposta ha come strumento la propria coscienza determinata dall’incontro cristiano fatto. In questo modo tutto diventa esperienza. Lo svolgersi sistematico dell’esperienza si chiama “cultura” ed è tanto più potente nel suo esito quanto più è compiuta dal di dentro di una coscienza di appartenere. Questo esercizio ha due ambiti di verifica, indicati da Giussani come particolarmente importanti: il rapporto con le persone e il contenuto del lavoro.