Occasione di questo lavoro di raccolta è il ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità: per questa ricorrenza Giovanni Paolo II, con una lettera a Giussani, riportata in apertura, ripercorre «i passi significativi dell’itinerario ecclesiale del Movimento» e ringrazia Dio «di ciò che Egli ha operato attraverso l’iniziativa Sua, Reverendo Monsignore, e quella di quanti a Lei si sono uniti nel corso degli anni». Don Giussani, riprendendo puntualmente la lettera pontificia, chiede a tutti gli amici della fraternità di «domandare una chiarezza grande di fronte alla nostra responsabilità» e di pregare la Madonna «per le nostre miserie e per quelle del mondo».
Il libro è suddiviso in cinque parti.
I. L’idea di Fraternità – Riflessioni di don Luigi Giussani durante un consiglio di presidenza di CL del 1993
La prima idea della Fraternità, racconta don Giussani, risale all’inizio degli anni Settanta: egli fu colpito, di fronte a 250 responsabili del Movimento, dall’idea che fossero tutti cresciuti umanamente e professionalmente, e che fossero responsabili di famiglie, uffici, botteghe, ma non fosse ancora conclamato che ciascuno era tenuto a «sentire responsabilità matura per la loro santità». La risposta a quest’esigenza di correzione non poteva più essere però nelle forme adeguate agli studenti o agli universitari - «curati come bambini, organizzati come ragazzi o messi in moto come universitari» -, ma doveva essere compresa e assunta da ciascuno liberamente; inoltre questo lavoro non poteva precludere la caratteristica fondamentale del metodo cristiano e cioè la comunionalità e per cui si propose di mettersi assieme liberamente formando un gruppo, non enorme, che avesse come valore e scopo l’incremento della fede l’uno dell’altro attraverso la preghiera, la Scuola di comunità e la carità vicendevole. Per favorire l’adesione a queste due idee fondanti si proposero due gesti necessari: l’iscrizione alla Fraternità e l’obolo mensile al fondo comune.
II. L’origine e lo scopo – Interventi vari di don Luigi Giussani in merito alla Fraternità dal 1969 al 1992
Gruppi di Comunione, Confraternite, Fraternità sono nomi usati per uno stesso fenomeno intuito, sperato e vissuto in nuce da don Giussani: queste declinazioni condividono, infatti, l’origine e lo scopo e cioè che il gruppo – e questo già viene detto nel 1969 – non sia un rifugio, ma un luogo di conversione personale, di fatica e di passione per il Movimento. Dieci anni dopo, rispetto alle confraternite, si ribadisce che la questione è una realtà amicale e comunionale in cui l’adulto, in quanto battezzato, si assume la responsabilità del richiamo alla dedizione totale a Cristo. Con il riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione – 11 febbraio 1982 – si esplicita definitivamente e pubblicamente la bontà dell’esperienza di Comunione e Liberazione; la certezza, data dal riconoscimento pontificio, che la Fraternità sia per l’edificazione della Chiesa, e cioè perché il Signore sia conosciuto in tutto il mondo, fa sì che l’esperienza della Fraternità coincida con la ricerca del proprio volto e dunque coincida con il lavoro per vivere il rapporto con Dio, con il proprio destino: convertirsi è realizzare la propria verità. Posto questo fondamento, diventa chiaro che la sequela, nel senso della dipendenza ultima da chi dirige la Fraternità, coincide con la mia convenienza vera, con la convenienza di Cristo: coincide con il passaggio dalla stima del mondo alla stima di Cristo. Il punto decisivo della attuazione nella vita di questa nuova convenienza è la regola, intesa come compagnia guidata al destino, soprattutto nel suo aspetto individuabile in fatti precisi e stabiliti: la regola è la compagnia in quanto stabilisce alcuni punti di riconoscimento preclari, «come il tetto s’appoggia ai piloni, e in cui vibrano esempi che, nella loro gratuità, costituiscono un’edificazione, uno stimolo edificante». La compagnia è chiamata dunque a diventare memoria di Cristo, cioè a riconoscere in modo stabile la Sua presenza. In questa direzione viene citato come «la pagina della Fraternità» l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus: «Non ci ardeva forse il cuore dentro il petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». Da questa commossa consapevolezza nasce l’impeto missionario, «dirlo agli altri», per cui si inizia ad essere responsabili verso il Regno di Dio.
III. L’opera della Fraternità è il Movimento – Lezione tratta dagli Esercizi spirituali della Fraternità, Maggio 1982
Don Giussani, osservando che può essere facile distrarsi dallo scopo fondamentale del Movimento, in questa lezione, propone che la vita si fondi di schianto su Cristo senza intermediazione di interpretazione. Cristo come ragione dell’esistenza e della creatività umana, è il cuore dell’esperienza del Movimento; scopo della Fraternità si rivela dunque essere il richiamo a questa purità originaria, richiamo al fatto che ciascuno cammini di fronte a Cristo. Considerato dunque il Movimento per quello che realmente è, l’istituzione della Fraternità esplicita la sua identità nel richiamo alla purità totale nell’impegno col Movimento. Di fronte a tale magnanima correzione scatta un abbraccio comune, una possibilità di perdono e comprensione e non da ultime un’agilità e una libertà anche nell’organizzazione. Perciò le Fraternità non sono subordinate al Movimento locale, ai capi o a possibili opere o organizzazioni, ma, nella libertà della adesione iniziale, l’unica forma di autorità all’interno della Fraternità è la Diaconia centrale, di cui viene data chiara descrizione nello statuto della Fraternità.
IV. Assemblee e dialoghi.
Esercizi della Fraternità 1982
Don Giussani apre quest’assemblea spiegandone il significato, ovvero «lasciarci correggere dall’esperienza dell’altro», e leggendo quattro lettere che delineano la figura del soggetto di cui la Fraternità ha bisogno. I numerosi interventi che seguono sono motivati dal desiderio di comprender di più come sia possibile vivere, senza intimismi o formalismi, la propria vita spalancati a Cristo: vengono valutati atteggiamenti, posizioni, sintomi, più o meno consoni allo scopo della Fraternità. Ma è nel giudizio sintetico di don Giussani che gli interventi e le domande trovano risposta: «Se noi chiediamo la fede e se noi chiediamo che Cristo dimostri, manifesti la Sua vittoria, che ha già attuato e partecipato alla nostra carne nel Battesimo, si manifesterà: la fede diventerà luminosa, comunicativa, creativa, poetica, ed Egli si manifesterà nella nostra vita agli occhi di tutti. Questa è la certezza per cui l’uomo cristiano cammina, come diceva san Paolo, spe erectus, diritto nella speranza, come camminò Abramo, sperando contro ogni speranza: ritti nella speranza, contro l’evidenza della nostra mortale fragilità».
Esercizi della Fraternità 1983
L’assemblea è aperta dall’intervento di Giancarlo Cesana che, dopo aver ricordato le sue iniziali perplessità riguardo all’insorgere della Fraternità, esplicita due domande; la prima riguarda la tentazione di sfuggire al fatto che la Fraternità sia una legge per la vita e la seconda riguarda la tentazione di scadere nella scelta religiosa sostituendo l’originale impulso missionario del Movimento con l’intimismo. Don Luigi Giussani accoglie i due spunti: ribadisce che la Fraternità non fa altro che urgere al fatto che ciò che era bello e buono nel Movimento diventi regola per l’adulto che ha sperimentato la corrispondenza del Movimento, e assicura che la fede ci è stata data, non per un ritiro dalla società, ma per una capacità di presenza. Su queste due direttive, la fede e la testimonianza, si sviluppano numerose domande con relativa risposta riguardo alla memoria, la regola, l’ubbidienza, la libertà, l’abbandono, l’appartenenza, ma è nel richiamo a far coincidere la fede con la vita che le domande riguardo l’agire trovano la loro giusta dimensione perché questo, poco o tanto, tenderà a modulare, tenderà a cambiare l’azione, la Sua memoria determina il mio soggetto.
Esercizi della Fraternità 1985 (primo e secondo turno)
Lo snodo fondamentale di queste due assemblee è la parola vocazione, ovvero l’impatto del cosmo, della realtà, della storia sull’io; la vocazione coincide con quella maturità di fede, quel cammino di ascesi che è la Fraternità. Non può esserci, infatti, ambito di Fraternità che coscientemente salti l’ambito più prossimo della famiglia, degli amici, del lavoro e della società: «La fede mi butta nella realtà». Quest’attenzione alla realtà non si può però misurare dal fatto che una Fraternità aiuti a risolvere i problemi ma dalla certezza della meta: «è dallo scopo che viene la luce che illumina e dà forma precisa alle nostre azioni». Il cambiamento umano non è, dunque, la precondizione dell’appartenenza ma la conseguenza gratuita della vittoria di Cristo sul male: «La resurrezione di Cristo […] diventa evidenza definitiva, nel cambiamento reale in qualche cosa, in qualche cosa di sostanziale dal punto di vista del valore». È nell’impeto missionario che, normalmente, i problemi e le difficoltà della vita trovano la loro giusta dimensione e si risolvono: detto in altri termini, «la vita diventa lieta se c’entra il destino, cioè se c’entra Cristo». Senza la consapevolezza che «è Cristo che dà la vita eterna e il centuplo quaggiù» si muore nella palude delle nostre cose solite. In quest’orizzonte l’unica responsabilità che resta all’uomo è il grido, la preghiera a Cristo, «Cristo, abbi pietà di me: vieni!». Occorre mendicare, immedesimandosi con la parola di Dio e con la liturgia sorretti dalla guida che è l’autorità.