Introduzione. Dentro quello sguardo. La modalità con cui l’avvenimento di Cristo raggiunge l’uomo decide della personalità di quest’ultimo, definendolo per sempre. Il metodo con cui l’avvenimento entra in rapporto con il singolo io si chiama «carisma». Esso raggiunge la persona sempre attraverso l’incontro con una compagnia umana. Dunque, il soggetto diventa se stesso se obbedisce, se s’immedesima con le caratteristiche della compagnia che ha incontrato.
I Una certa modalità, totalizzante
Carisma e verifica. Il carisma è il modo che si ha di percepire Cristo, perciò il carisma è un punto di vista totalizzante perché è il modo con cui Cristo si dona. È Cristo che è totalizzante. Il dono del carisma mira alla verifica, ossia alla scoperta della gloria di Cristo. La modalità con cui il carisma fa vivere il rapporto con una persona è così piena di attenzioni e così sviluppata come fattori, in modo normalmente impossibile a concepirsi, che dimostra così la sua verità. Lo strumento più facile per l’educazione a questo sguardo totalizzante è domandare nella forma che ci ha insegnato Cristo e ci insegna la Chiesa: rispettivamente, i sacramenti e la liturgia.
Tutto quel che si dice. Tutto quel che si dice nel Movimento si può dire in poche parole: la personalità di Cristo è presente perché le persone che Lo hanno incontrato sono «una cosa sola». Ciascuno è membro di Cristo e perciò ognuno è parte dell’altro, membro dell’altro. L’Autore sintetizza: «Ma se tu sei membro mio, io non sono più io senza di te!» L’io si assimila a questa presenza e così avviene tutto ciò che sembra «complessissimo e lunghissimo» da dire. La questione unica è quella di domandare tale coscienza e la cosa più importante è il senso del Mistero. Il Mistero, per chi ha incontrato Cristo, è una realtà. Infatti, con Cristo si passa dal Mistero intuito dalla ragione e subito evanescente – perché la ragione non riesce a tenerlo – al Mistero reso presenza umana. L’atteggiamento più vero, quindi, è «guardare e domandare»: la domanda fa guardare e il guardare moltiplica la domanda.
Niente è profano. Il rapporto di Dio con l’uomo avviene solo attraverso dei fatti storici: è l’alleanza tra Dio e l’uomo. Tutto il mondo umano è un tempio: tutto sta dentro questo tempio e non c’è niente di profano, cioè fuori dal tempio. Se il Signore è diventato un uomo, questo uomo è il padrone della forma dell’alleanza nuova ed eterna; con questo uomo tutto serve come espressione del rapporto con Lui. Il rapporto con l’altro, perciò, definisce la relazione con Cristo, in quanto modalità con cui Cristo stesso si documenta nel tempo. La cosa più bella del mondo è vivere questa alleanza con Dio nella realtà più prossima.
II Attraverso un temperamento
L’impeto di Simone. Simone è stato messo come guida di tutti gli altri perché ha dato una risposta con un’enfasi, una dedizione, una consapevolezza e un entusiasmo che gli altri, per temperamento, non avrebbero potuto dare. Cristo l’ha individuato come temperamento: «Tu sei pietra». Ciò che Gesù fa, lo fa prendendo spunto e pretesto dal temperamento. Dio, creando l’uomo, crea lo spunto da prendere per esaltarlo. Per questo la natura con cui Dio fa l’uomo ha come espressione inevitabile e insostituibile la domanda. La salvezza, infatti, sta nel chiedere al Mistero che la sua forza compia nella propria persona quello che non si sarebbe capaci neanche di pensare. Perciò il metodo rivelato da Cristo è il messaggio di una liberazione semplicissima.
Responsabili del temperamento. Essere responsabili del temperamento significa che il proprio temperamento, traducendo o mediando ad altri una cosa che ha sentito dire, deve essere tutto proteso ad affermare non se stesso, ma ad affermare quello che ha sentito. Responsabilità del proprio temperamento uno l’ha in tutte le cose che fa, in quanto il temperamento entra dappertutto. Il temperamento è una «condizione» che Dio accetta e trasforma in «strumento» del suo disegno di salvezza. La grazia non può operare, infatti, senza il condizionamento della libertà e, prima ancora, del temperamento.
Temperamenti e pagine. Ci sono passi nella parola di Dio dove alcuni aspetti vengono esaltati. Ci sono temperamenti che certe pagine della Scrittura esaltano così che uno può trovare una corrispondenza con quello che è. È molto importante scoprire nella parola di Dio la pagina che corrisponde di più: meditare quella pagina è come un aspetto prevalente del proprio programma. Ci sono pagine della Bibbia, infatti, che tematizzano la modalità del proprio cammino al destino. Quella pagina ha l’effetto di un carisma che cambia, fa crescere il temperamento con cui Dio ha fatto ciascuno. La conseguenza del guardare in faccia la pagina che più corrisponde è la pace.
III Seguire una presenza
Da un implicito. Normalmente si cammina sulla via della vocazione non secondo quello che è stato implicito nel motivo per cui si è deciso di iniziare: la ricchezza del primo momento è così implicita – e tanto sottilmente persuasiva – che dopo non si svolge più. Se non si svolge dunque l’implicito l’istintivo prevale, il naturale prevarica. L’inizio storico, esistenziale, della strada che si percorre è il punto più puro e più vero della propria vita. Il tempo dell’esistenza di ciascuno non ha senso, se non c’è stato un momento di tempo che di tutto il tempo ha dato il senso. Questo momento del tempo è l’inizio della vocazione. Sembra il più povero e il meno consapevole di tutti, invece è il più consapevole e il più concreto. Per questo il vero nemico è ciò che si oppone al momento iniziale.
Obiectio, obiectio! Il seguire, umanamente parlando, implica intelligenza ed affezione; seguire chi Cristo fa incontrare come compagnia esalta questa intelligenza e questa affezione. Non c’è una rinuncia della propria natura, bensì un potenziamento di essa. È solo una presenza che può valorizzare il «ciò attraverso cui» e il «ciò a cui vai», che valorizza dunque Dio stesso e le circostanze attraverso cui parla. È solo il concetto di «presenza» che implica allo stesso tempo qualcosa di sensibile e tangibile e Qualcosa d’altro. Una presenza non la si capisce perché la si scruta, la si guarda, la si interpreta o la si studia pezzetto per pezzetto, ma solo se essa si rivela.
«C’è un vecchio nella tua vita». «C’è un vecchio nella tua vita». Questa affermazione detta a una delle presenti, secondo l’Autore, è vera per due ragioni. In primo luogo, perché il vecchio è Dio. C’è qualcuno che viene prima e che si sta seguendo. Da qui discende un’intensità di sicurezza che gli altri non hanno. In secondo luogo, l’affermazione è vera anche umanamente parlando, nel senso che un rapporto sincero tra un giovane e uno più anziano è estremamente più positivo che il rapporto tra due giovani, perché il rapporto con un anziano è il rapporto con una esperienza maggiore, perciò con una saggezza più provata. Una stabile serenità, documentazione di un’affettività equilibrata, non è possibile trovarla in un altro uomo, se non nella misura in cui quest’ultimo è la trasparenza di un Altro.
IV Una mentalità nuova
«Non conformatevi». Il cristiano si pone di fronte al mondo con una mentalità nuova. Tale mentalità non si afferma grazie a un’egemonia, ma attraverso una cultura nuova, com’è avvenuto per i primi cristiani. La loro cultura nuova era caratterizzata da un’ecumenicità, ovvero dalla capacità di vagliare tutto a partire da ciò che vale. L’ideale vero per loro era Cristo. Egli è il solo che può cambiare radicalmente il modo di pensare, di concepire, di immaginare il lavoro e il modo di attuarlo. Si tratta di un cambiamento dell’essere.
Contro lo spiritualismo. Lo spiritualismo è un errore perché il Dio vivente è un Dio fatto carne ed è nella carne che si deve trovare. La Chiesa, infatti, nella sua totalità è identificabile in un popolo, perciò in un termine molto concreto. La Chiesa, inoltre, tocca la vita di ciascuno secondo una certa compagnia nella quale il soggetto si imbatte. Più in generale, sbagliare come spiritualisti significa astrarre dalla concretezza, cioè astrarre dalle circostanze di tempo e di spazio che definiscono un problema. Un problema, infatti, anche se ha un suo contenuto di principio, si pone sempre attraverso circostanze di tempo e di spazio. Prescindere da queste è spiritualismo.
Istruzioni per l’uso (?!). L’avvenimento di Cristo compie il miracolo: attraverso la Chiesa Egli entra nel mondo e incomincia a delineare momenti di chiarezza e di bontà vera. È la vita della Chiesa che documenta la santità. Perciò, se non si segue Cristo si rende impossibile il miracolo (anche se non nel senso originale e totale del termine). Il seguire può essere per dovere e allora significa seguire delle «istruzioni per l’uso», oppure può essere sorretto dalla consapevolezza che, presto o tardi, l’obbedienza farà fiorire l’animo. In questo senso seguire è già un miracolo.
V In azione
La posizione problematica vera. La reazione di fronte alla realtà è inevitabile e può essere di qualsiasi natura. È lì che incomincia il problema perché emergono i due tipi di fatica più grandi: intervenire senza pretesa e accettare. Intervenire senza pretesa significa domandare senza presunzione: «Signore, posso intervenire per correggere?». Se non è possibile correggere, occorre accettare lo scopo per cui Dio ha permesso che la circostanza accada, cioè accettare il disegno di Dio. Questo significa mettersi in moto di fronte a ciò che accade. Il mettersi in moto si configura attraverso i due modi che sembrano i più astratti e i più lontani dal toccare la questione che ha provocato: in primo luogo la preghiera («Venga il Tuo regno!») e in secondo luogo la testimonianza. La radice di tutta la questione resta comunque la parola «offerta», cioè dare come scopo della propria azione il «per amore di Cristo».
Destino e compito (1). Accogliere la parola destino è un amore, mentre accogliere un compito è un interesse della propria persona. La parola destino rende soggiacenti a Qualcosa d’altro. Riconoscere questo e accettarlo è un amore più grande che neanche accogliere un compito. La parola compito diventa una novità quando inserisce una sottolineatura particolare: per andare al destino ognuno ha una strada particolare. La parola compito, quindi, è secondaria rispetto alla parola destino, anche se è più comprensibile o più misurabile. L’apparenza è il compito e il destino è la salvezza. La parola compito diventa densa, intensa e grave quando entra nell’orizzonte della parola destino: allora diventa una responsabilità.
Destino e compito (2). «L’accenno alle cose secondo il loro destino implica anche un accenno alle cose secondo il compito cui servono, perché l’accenno alle cose secondo il loro destino passa attraverso la loro utilizzazione per il disegno di Dio, ovvero per il compito». È solo la parola destino che suggerisce il compito vero e definisce lo scopo vero. Perciò, mentre il compito e lo scopo vengono serviti, il destino lo si ama e da esso si dipende. Al destino, infatti, si appartiene, mentre non si appartiene al compito. È solo la scoperta del destino che permette di accettare che norma del proprio agire è un determinato scopo. Infatti, la scoperta del destino è mortificazione dell’autonomia. Una tale mortificazione non esaurisce la vita perché il passaggio al destino (Cristo) è un amore, cioè è perdono. È nel guardare a Cristo quindi che si sviluppa tutto, s’impara a sentire gli errori, a percepire le direzioni false e a scegliere quelle vere.
Si può solo redimere. Durante il cammino dentro il tempo e lo spazio, la gloria di Cristo è un continuo ricomporre, riprendere, riedificare ciò che continuamente viene distrutto. Partecipare all’azione con cui Cristo redime il mondo significa sempre partecipare alla vittoria che Cristo ottiene sul male attraverso la croce. È l’«attraverso la croce» che qualifica la collaborazione a salvare dal male. Infatti, fare il bene, come tale, non implica questo: fare il bene è fare il bene. Il lavorare invece è per ricostruire, questa è la croce. Dunque, partecipare alla redenzione è partecipare a quell’amore al mondo che si gioca attraverso la croce. L’amore come impeto, infatti, non vale la pena rispetto all’amore come sacrificio di sé. Quindi, la realtà com’è si costruisce solo redimendo, cioè partecipando al mistero della croce.
VI Dentro la vita di un popolo
Urgenza di cambiamento. La Scuola di Comunità è innanzitutto un pensiero – intendendo per pensiero la compiutezza dell’espressione della ragione –, è la ragione che opera il proprio lavoro con compiutezza. La compiutezza dell’opera della ragione è una coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. La totalità di questi fattori implica un punto in cui la ragione non sa spiegare tutto, ma solo accusare la presenza di un fattore oltre le sue possibilità. “Oltre” significa che è un fattore tale da rendere segno ciò di cui si sta parlando o su cui si va pensando. Alla luce di questo Mistero, che la ragione scopre nella realtà diventata segno, sono in vario modo contestate le nostre azioni. L’esito del lavoro sulla Scuola di Comunità, quindi, più che essere dominato dalla curiosità e ridotto a una dialettica, deve richiedere un’urgenza di cambiamento della nostra vita. Il primo sintomo di questo esser «già» cambiati è la mendicanza. Da questo cambiamento viene, inoltre, continuamente progettato un altro cambiamento. È questo il significato profondo dell’«È, se opera».
Una realtà in movimento. Il Movimento, in quanto è una amicizia al destino, rappresenta una realtà in movimento, verso una maturità maggiore. Scandalizzarsi dei limiti è il modo migliore per andare contro il Movimento, cioè bloccare il dinamismo dell’amicizia. Infatti, la natura dell’amicizia è un aiuto a camminare verso il destino. La proposta di un aiuto a camminare verso il destino è una proposta verso l’umano e perciò verso una risposta a un bisogno. Il metodo per vivere il Movimento è partecipare positivamente alle cose che il Movimento propone. La positività si acuisce e si determina come sensibilità e come fedeltà, se persegue lo scopo per cui è nata. Il limite o l’errore non deve togliere come prima conseguenza un’urgenza maggiore del proprio personale impegno.
Fare Scuola di Comunità. La Scuola di Comunità è la verità cristiana appresa nella sua «applicabilità e nella sua capacità di risorse, dentro l’impegno umano», cioè «dentro la modalità con cui l’uomo cerca di tradurre le sue esigenze elementari». Dentro questo ambito la Scuola di Comunità fa emergere come il messaggio cristiano corrisponde ad esse e aiuta questa attuazione. Tutte le domande che si possono fare su come vivere la Scuola di Comunità non sono autentiche se la risposta che ne segue non risponde ad una passione che si ha: la passione di conoscere il Signore. La natura della Scuola di Comunità è una compagnia di persone che vivono nello stesso luogo cercando il Signore.
Proporre sé è vivere. Solo se il Verbo si fa carne, la speranza si fa felicità. Il cristianesimo è il Mistero ultimo reso fatto sperimentabile. Allora, il modo con cui è possibile essere in rapporto con gli altri è diverso. Per questo non si possono proporre delle idee: si può solo proporre sé, cioè il proprio sguardo sulla realtà. Se non si propone sé, si propone una menzogna. Proporre se stessi è innanzitutto vivere, esistere.