1979
Con il proprio volto
Se si osserva l’attesa che si vede nella gente comune, ci si accorge che essa è il primo segno del modo in cui Dio trae il soggetto dal nulla. Il cristiano porta qualcosa di cui tutti hanno bisogno e, infatti, il modo di stare in università di chi è di Comunione e Liberazione non è definito dalla laurea, dalle elezioni universitarie o da altre attività, ma da qualcosa di diverso e più grande, è definito da una Presenza che risponde al proprio bisogno umano. La propria umanità cambiata genera una «perturbazione» nel modo di vivere tutto: il lavoro, la politica, la situazione in cui si è. Il metodo per continuare a seguire l’avvenimento che si è incontrato è stare nella compagnia, perché Cristo si manifesta attraverso il cambiamento delle persone che lo testimoniano. La diversità che nasce con Cristo ha come segni umani il recupero della razionalità e della gratuità.
Un movimento dentro il movimento
Nelle comunità del CLU nel 1979 stavano sorgendo dei punti di fermento nuovo. Era necessario che in ogni comunità prendesse corpo un punto reale che generasse continuamente la comunità. Questi movimenti dentro il movimento dovevano avere come caratteristica l’entusiasmo per l’avvenimento di Cristo, dal quale sorge l’unità della persona, e il riconoscimento del fatto che la fede va giocata dentro la realtà, nell’ambiente e nella storia in cui ci si trovava. L’impatto con la realtà spinge, infatti, a portare dentro l’ambiente ciò che si è incontrato; solo così si può approfondire il contenuto dell’incontro fatto.
Una Presenza che tocca la vita
Il tema del ritrovarsi è la propria umanità, tutta intera, con tutto il disagio che sente. Il disagio umano è una condizione quotidiana che non possiamo risolvere da soli. Deve accadere qualcosa d’altro, un avvenimento. Un avvenimento è tale quando genera stupore – vale a dire quando ci si accorge che non è generato dal soggetto – e quando tocca la propria persona. Questo avvenimento, per il cristiano, ha la forma di un incontro preciso che investe la propria umanità. In questo senso, il movimento coincide con il soggetto, perché si tratta del proprio io. Il nostro compito davanti a un avvenimento simile è seguirlo e la sequela implica un paragone continuo tra i propri interessi, tra la propria vita e ciò che si è incontrato. Questo paragone genera un giudizio nuovo su tutto, porta a concepire, cioè a creare, a far nascere un’umanità diversa. Si tratta di una concezione nuova della vita, che è caratterizzata dalla carità, dalla gratuità verso le cose e le persone. Tutto ciò è sostenuto nel tempo dalla coscienza della Presenza, dal riconoscimento di Ciò che è tra noi. Solo così la sequela al movimento non è formale, ma nasce da un’affezione reale e il frutto di questa posizione è la letizia. Occorre mendicare da Cristo che la memoria di Lui diventi abituale nella vita, non come ricordo lontano, ma come riconoscimento di una Presenza che abbraccia ogni momento della giornata. La vita intera deve diventare domanda e perché questo accada occorre, da un lato, costringersi a domandare e, dall’altro, avere consapevolezza della propria piccolezza e incapacità. Dal riconoscimento della Presenza come consistenza della vita nasce un giudizio nuovo sul mondo, nasce cioè la cultura. Essa non è un principio riservato agli intellettuali, ma è il contenuto di una coscienza critica che nasce dell’annuncio ricevuto. Dalla letizia di questo annuncio, poi, nasce la gratuità verso gli altri e quindi la carità.
1980
La razionalità della gratuità
Il punto centrale per la compagnia del movimento non è la capacità che si ha di costruire o di realizzare un certo progetto, ma la propria persona. Essa è definita alla sua origine dal rapporto con qualcosa di Altro, di esterno ad essa perché da sé non è in grado di realizzare i suoi desideri e le sue esigenze. L’uomo non è stato abbandonato nella sua impotenza, perché Colui che ha fatto il disegno a cui l’uomo stesso appartiene è venuto e si è rivelato. Da tale riconoscimento nasce l’amicizia tra i cristiani, che porta con sé un fiume di generosità, un atteggiamento di impegno gratuito. Se la gratuità non nasce dal giudizio sul proprio io e sul proprio destino, resta un moralismo generoso destinato a decadere. Invece un gesto è carico di gratuità razionale quando è espressione della verità della propria persona. Per capire la razionalità della gratuità occorre quindi andare al fondo di cos’è l’uomo. La razionalità vera sorge quando l’uomo prende coscienza di essere rapporto con l’infinito. Il problema della presenza del movimento in università non è rispondere ai bisogni, ma è aver coscienza di se stessi come rapporto con Cristo, che è il destino proprio e allo stesso tempo di tutti. Solo da qui nasce una compagnia vera e la conseguenza di questo sentimento di sé è la gratuità libera dall’esito.
Il passaggio all’esperienza
Spesso è stata usata l’espressione passare «dall’esperienza al giudizio», ma si tratta di un’espressione impropria, perché è proprio il giudizio che rende tale l’esperienza. Il problema è dare dignità di esperienza a ciò che si fa, perché quando si introduce il giudizio le nostre azioni cambiano radicalmente. Giudicare significa paragonare ciò che si fa con l’ideale riconosciuto, solo che spesso si ha l’impressione che si tratti di un’operazione mentale astratta. Invece il giudizio è una memoria e un gusto nuovo che ci si trova addosso ovunque andiamo. Il giudizio è il peso con cui l’ideale determina il soggetto nello sguardo e nell’impostazione che ha di fronte alle cose. Questa è l’unica fonte di certezza, perché l’«amicalità» che spesso affascina nella compagnia del movimento non è sufficiente e col tempo si può sgretolare. Invece nell’incontro si intuisce un valore per la propria vita e a partire da questa intuizione si inizia a seguire la compagnia. Seguire significa rendere vero ciò che la comunità propone; da qui nasce e si sviluppa il giudizio. Non si tratta di un meccanismo, ma dello stupore e dell’entusiasmo che sorgono di fronte alla scoperta di una Presenza. Dalla verifica del giudizio sorge la certezza, che porta con sé l’impeto missionario. In questo percorso spesso si incontra una resistenza della libertà, che è il peccato originale. Non ci si deve scandalizzare di questo, ma occorre domandare all’Essere che il fatto incontrato investa tutta la vita.
Personalità e impeto culturale
Gli obiettivi fondamentali riconosciuti da Giussani del lavoro del CLU erano due. Il primo era la personalizzazione della vita del movimento: era necessario approfondire la personalità nuova che sorge dall’incontro con Cristo. Il secondo aspetto era quello della cultura. Si appartiene al Movimento per l’impatto con un avvenimento eccezionale, nel quale si è sperimentata una sorta di «scintilla», che ha attraversato il nostro cuore svelandolo nella sua verità. Questo avvenimento prende totalmente, eppure spesso si resiste a causa di una mancanza di energia morale, che porta a essere determinati dai propri istinti e sentimenti. Per non cedere a questo atteggiamento occorre una decisione, che non nasce da una propria capacità, ma dal riconoscere di essere attratti da un Altro. Cedere è conveniente perché l’Altro genera un’attrattiva irresistibile; la propria resistenza, dunque, è data da un’incapacità di affezione e di adesione alla bellezza. La decisione è indebolita anche dall’incertezza sulla strada da percorrere, ma è per questo che Cristo si è fatto uomo. Lui è la strada nella storia e raggiunge il singolo attraverso un luogo particolare come il movimento. Per questo occorre seguire la compagnia, non passivamente, ma come un lavoro continuo che permetta di giudicare tutto a partire da quello che si è incontrato. La compagnia deve diventare esperienza, cioè giudizio nuovo che investe tutta la vita. È così che dall’incontro con Cristo nasce una posizione culturale, non come fissazione su un particolare interesse intellettuale, ma come capacità di giudizio che scaturisce dall’affermazione della Sua presenza. È l’entusiasmo per la verità che genera una posizione culturalmente viva. L’attività culturale, quindi, è il dilatarsi della compagnia a tutto il mondo, è un abbraccio che ingloba tutto ciò che si incontra.
1981
Il filo del desiderio
Occorre riconoscere che si è figli del proprio tempo. Questo fatto non può impedire che nascano delle intenzioni buone; tuttavia rende difficile il passaggio dall’intenzione alla moralità. Chi appartiene al movimento è stato percosso da un fatto che ha generato un attaccamento, e il ritrovarsi insieme è il segno che c’è ancora un filo di desiderio, un filo di attaccamento a quell’intenzione ideale iniziale. Questo tipo di desiderio nasce dalla scoperta che la consistenza di sé è qualcosa di Altro da sé. Il problema è che questo filo di desiderio non è vissuto, c’è una fragilità della libertà che non è prima di tutto incoerenza, ma mancanza di unità nel guardare la propria vita. È un problema di moralità, che significa desiderio di incrementare e solidificare quella posizione iniziale autentica del nostro umano. Il primo modo per sviluppare la moralità è riconoscere e possedere quel filo di desiderio, cioè farlo «diventare nostro». Occorre domandare che ciò accada e questo implica un sacrificio, ma porta nel tempo anche a un cambiamento. La seconda via di sviluppo della moralità è la ricerca culturale e politica, perché l’essenza dell’uomo si sviluppa nell’impatto con la realtà. Lo sviluppo organico della personalità è dato dall’attività di quel desiderio che è provocato da ciò che incontra. La ricerca culturale, allora, è l’uso del proprio io in funzione di qualcosa di più grande. Lo strumento di aiuto in questo lavoro è la compagnia e il nemico più grande che si può avere nel vivere la comunità è il formalismo. Nel formalismo non c’è possibilità di cambiamento, mentre l’opposto del formalismo è la libertà. La libertà vera nasce sempre come giudizio, come riconoscimento dell’attrattiva del vero, e si compie come adesione ad esso.
Essere certi di alcune grandi cose
L’impegno nel referendum contro l’aborto ha fatto emergere la domanda su quale sia il compito del Movimento nella società. L’importanza di questo tema è stata evidente nelle settimane precedenti al voto. Il problema si è presentato quando, passata l’emergenza, si è fatto fatica a motivare l’impegno quotidiano normale. Questo è grave perché indica che ci muoviamo spesso in modo reattivo e poco certo. Occorre essere più poveri, vale a dire certi di alcune grandi cose sulle quali la vita intera si fonda. Queste «alcune grandi cose» coincidono con la fede, e la fede non è tale se non è rischiata in ciò che accade, in tutte le circostanze, nell’ambiente in cui siamo. La nostra miseria non viene eliminata, ma la nostra dignità e la nostra consistenza stanno in qualcosa che è oltre noi. Spesso la fede è sentita come obiezione a ciò che siamo, mentre la fede deve sfidare tutto, deve investire il rapporto con lo studio, il lavoro, la donna. Solo così la certezza si incrementa. Ma qual è il contenuto della fede, di quelle «poche grandi cose»? Prima di tutto il fatto che il Mistero è presente sotto forma umana e niente potrà eliminare la sua Presenza, nemmeno il nostro peccato. Si ripete spesso nel Movimento la parola Cristo, ma è come se non esistesse; Cristo, invece, è la forma e il significato del vivere in ogni suo aspetto. Davanti alla Sua presenza si percepisce lo scarto della propria miseria, ma la Sua potenza vince il limite e affida un compito: costituire il seme di un popolo nuovo. Per questo l’altra grande cosa di cui si è certi è la compagnia del Movimento ed è l’appartenenza ad essa che definisce il proprio io.
Qualcosa che cambia la vita
Si vive spesso come dei malati di astenia, afflitti da una debolezza cronica che il potere cerca di alimentare. Per questo si diventa reattivi e la voglia e l’istinto sono i criteri delle azioni. Ci sono due pretesti che spingono verso questo atteggiamento. Il primo è la paura della propria incoerenza, che in realtà è indice di un’impazienza: dato che il cambiamento della propria persona non avviene come e quando immaginiamo, mettiamo in dubbio la verità del fatto incontrato. Il secondo pretesto è l’attaccamento al nostro modo di immaginare la risposta ai desideri che abbiamo, che finisce per sclerotizzare gli stessi bisogni. Ciò che restituisce un volto alla vita, ciò da cui rinasce la personalità è l’appartenenza a qualcosa che c’è già. Ma l’appartenere è vero solo se è riferito a Colui che crea e ama ogni singolo, perciò a Cristo. Appartenergli significa riconoscerlo e seguirlo: questa è l’unica vera disciplina della vita. Il problema, allora, non è rispettare le regole, ma farsi provocare dalle proposte della compagnia, perché l’adesione si attua solo nell’abbraccio alla realtà. Questo inizia nell’ambiente in cui si è, attraverso il lavoro al quale si è chiamati e da lì si estende a tutto. L’aderire alle proposte della compagnia diventa il modello per affrontare tutta la realtà. Solo così si può cambiare veramente e si può essere una presenza. Essere una «presenza» significa essere nell’ambiente con la coscienza di ciò a cui si appartiene.