Dalla mia vita alla vostra
Tutti i rapporti tra gli uomini, e quelli tra gli uomini e le cose sono mediati da una capacità di fascino e un’esigenza di soddisfazione, da cui può maturare una simpatia nei confronti dell’iniziativa presa da un Altro sulla propria vita. Tale riconoscimento di un Altro come parte di se stessi, come è avvenuto agli amici di Giussani in cinquant’anni di rapporto giocato sulla «libertà pura», è un’eredità che è fonte continua di una storia. L’alternativa sarebbe il cinismo, cioè il non riconoscere l’inevitabilità della propria umanità. Ciò che salva dal naufragio nel nulla è, invece, la fedeltà alla fedeltà di Dio, poiché «nell’Essere non c’è possibilità di infedeltà all’essere». L’avamposto di tale concezione di sé è la domanda.
Lo scopo e la strada
L’affermazione dell’essere si attua nella forma della memoria: qualsiasi cosa ricordata è un brano di essere che, in quanto è, è positivo. Le cose, anche come apparenza, sono; pertanto la percezione vertiginosa della loro contingenza non può tradursi in un nichilismo come quello di Montale, che le ridurrebbe a niente. Ciò che vince è, invece, il fatto dell’Essere, la radice misteriosa in cui «tutto consiste», come afferma san Paolo. L’Essere si svela in Cristo come Misericordia, cioè potenza infinita che può trarre l’essere dal nulla e rendere nulla l’essere, come accade nel caso dell’errore e del dolore che sono «resi zero» dal perdono. Il vertice dell’autocoscienza è la percezione, nell’istante, di sé come fatto da questo Tu. Da qui scaturisce la consistenza dell’io; affermando questo Tu è possibile «non perdere neanche un capello del capo».
Attraverso l’umano
Il Mistero penetra nel mondo come un fatto storico, nello spazio e nel tempo. In Cristo, duemila anni fa, Dio è diventato sperimentabile attraverso la carne. Tale momento conferisce un nuovo valore al tempo, che diviene il farsi sempre più comprensibile dell’infinito, presentito dal cuore come proprio traguardo. La grandezza dell’essere uomini non consiste, dunque, nell’essere già capaci, ma in un «sì» come quello di Pietro, attraverso cui, nel tempo, l’anima diventa capace di grandi cose. La Chiesa stessa, nel suo insieme, cresce nel tempo come autocoscienza e sensibilità alla ricchezza che lo Spirito le comunica. Il popolo cristiano è, infatti, mosso nella storia dalla promessa fatta da Dio, attraverso Cristo, di poter vedere e avere tutto ciò che per natura desideriamo: quel «regno celesto», secondo le parole di Jacopone da Todi, che compie la felicità bramata dal cuore.
Apparteniamo allo stesso disegno
Il lavoro è la parte più eminente del nostro rapporto con le cose. È la dinamica per cui la persona entra in contatto con tutte le cose che la interessano e la invitano a un tentativo di chiarificazione. Tale urto richiama alla curiosità di voler conoscere lo scopo, poiché l’uomo è il livello della natura «in cui tutte le cose diventano esigenza del perché». L’aspetto finale dell’orizzonte di domande sul perché è sintetizzabile nella parola destino, in cui lo scopo si precisa come termine ultimo, non astratto, di ogni attività umana, che interessa cuore, intelletto e affettività. Perché si rinnovi quotidianamente la coscienza del destino occorre una «voce fuori dal coro» che ci dica che ciò per cui il cuore è fatto c’è. Questa «voce fuori dal coro» è diventata un uomo, Cristo, ed è talmente presente che ci muove anche oggi.
Il volto dell’uomo nuovo
L’uomo che acconsente al rapporto con Cristo diventa una cosa nuova, assume una personalità diversa. Ciò si dettaglia in una concezione della vita completa secondo la legge della ragione, cioè che non ha la necessità di rinnegare niente, in una progettualità di azione in cui tutto è in funzione del bene, e in una capacità di affezione che giunge alla gratuità, vale a dire un amore senza ritorno.
Il cristianesimo ci raggiunge attraverso persone che testimoniano questi tratti di diversità, e diviene ipotesi di vita che siamo chiamati a prendere sul serio e sperimentare, se ci interessa un metodo per «vivere meglio». In questo modo, più cresce l’esperienza di sé, più si trova la corrispondenza con il fatto «stranissimo» di Gesù di Nazareth. L’obiezione alla verifica di tale ipotesi ha origine nel preconcetto, che rende impossibile la ricerca autentica.
Che cosa c’entra con le stelle?
La dignità dell’uomo consiste nel nesso tra la banalità di ogni istante e la totalità dei fattori che costruiscono l’universo. Qualsiasi atto umano porta in sé la responsabilità dell’universo: o è secondo il bene di tutto o è contro il bene di tutto, ed in questo consiste la legge morale. La coscienza di tale responsabilità, in cui consiste la «densità dell’istante», si realizza nell’offerta. Ma l’uomo è incapace di sostenere da solo questa coscienza, e in lui c’è ereditariamente una facilità a cedere alla disperazione («Dio ha creato l’uomo per la felicità, ma l’uomo cerca la morte», cfr. Sapienza 1,13-16). Perciò occorre incontrare un Tu che sia in grado di spiegare la vita e dare ragione a tutto ciò che si fa, cioè il Tu del Mistero da cui l’io scaturisce. Nel rapporto con l’Infinito si genera così la speranza, che è la legge morale suprema, in cui tutte le cose sono viste come «parte di un gran riso dell’universo».
Il positivo prevale
Tutto ciò che si sperimenta si riferisce a qualcosa d’altro: c’è sempre, in ogni esperienza, un rimando. Per tale ragione l’uomo è costretto ad ammettere l’esistenza di un Altro inafferrabile, cioè un fattore che non sarà mai colto nel suo contenuto. Questa logica del senso religioso è il motivo per cui niente ci potrà mai soddisfare: infatti la natura del cuore è tale che non si può essere lieti dimenticando o rinnegando qualcosa dell’esperienza. Esiste però un uomo che, storicamente, ha affermato: «Io sono la Via», vale a dire: «Io sono il Mistero che manca ad ogni cosa che tu gusti, ad ogni promessa che tu vivi». Vivere la coscienza della sua Presenza fa guardare le cose come le guarda Lui: questa è la verginità. In questo sguardo si scopre che tutto è in funzione di un disegno di amore grandissimo che, già in questa vita, riempie di letizia l’animo di chi lo segue.
L’abolizione dell’estraneità
La parola «cuore» indica l’essenza dell’uomo come aspirazione alla compiutezza, alla felicità. Chi ci guarda senza il desiderio della nostra felicità è un nemico, fosse anche nostra madre. E non è vera compagnia quella in cui uno non sia piegato fino allo struggimento a pensare al destino dell’altro. La prima cosa che accadeva stando con Cristo, invece, è che veniva di schianto abolita l’estraneità. La concezione dell’esistenza cristiana genera, infatti, una compagnia in cui, come ha osservato Nikolaus Lobkowicz, l’amicizia è una virtù, cioè una comunione in cui l’altro è percepito come destinato al proprio stesso destino. Questo si chiama anche «ecumenismo», vale a dire «crescere nella vita consapevoli del proprio destino e, andando verso il proprio destino, trascinarsi in un abbraccio tutto, anche il bisogno dell’altro». La «Scuola di comunità» è scuola di tale esistenza vissuta in comune.
Appendice. Domande a Don Giussani
Il peccato originale è affermare che Dio non è tutto in tutto. Come conseguenza di ciò, mentre la scienza, che è la possibilità infinita di scoperta dell’uomo, diventa la pretesa di eliminare Dio, la convivenza umana fonda se stessa sulla sete di potere, cioè sul poter usare l’altro senza condizione. Ma nessuna scienza o potere umano potrà mai dire: «Siamo arrivati a sapere tutto, ad avere tutto». L’apertura al rapporto con Dio è resa possibile dalla fedeltà all’Avvenimento, cioè dall’essere colpiti da una Presenza. La certezza su questo Avvenimento, Cristo, nasce dal rendersi conto che da tale incontro è scaturito un «surplus di corrispondenza integrale» con il richiamo del cuore. Così nasce la speranza cristiana, che è certezza di un futuro fondata su un Presente.