Introduzione
Il supremo ostacolo al cammino umano è la «trascuratezza» dell’io. Dietro a quest’ultima parola, infatti, c’è oggi una grande confusione, eppure la sua comprensione dovrebbe costituire per ogni uomo il primo interesse. Tale dimenticanza genera una conseguente incapacità a dire «tu» ad ogni cosa, trasformando il rapporto con il reale in un tentativo di affermazione di un proprio potere. In questa frammentazione dell’esperienza Dio diviene una realtà inutile, concepito come concetto astratto; l’eliminazione del Mistero come punto sorgivo e come legge dell’essere rende incomprensibile la realtà e, in essa, il fattore che dovrebbe esserne il punto di autocoscienza. A fronte della negazione esistenziale di qualsiasi consistenza ultima del vivere, l’imbattersi nell’avvenimento cristiano è da duemila anni l’incontro con una compagnia di persone nel rapporto con la quale la passione per la scoperta del proprio volto umano e l’apertura alla realtà risultano continuamente desti.
Parte prima – Percorso drammatico
Per l’uomo reale il Signore è tutto. Che Dio sia il Signore delle realtà, però, non è emerso come frutto di una saggezza filosofica, ma è apparso sempre attraverso un intervento storico del Mistero stesso: questo è il metodo della rivelazione.
Nell’uomo, tuttavia, c’è una resistenza alla verità del proprio io che si manifesta come lotta fra sé e la misura misteriosa di un Altro. Egli dimentica la sua consistenza e cerca il significato della vita in ciò che si rivela essere nulla, trovandosi preda della corruzione e dell’irrazionalità. Solo l’intervento di Dio nella storia rivela l’uomo nella sua divisione profonda fra quello che è (sete d’infinito) e la sua esistenza che cammina in contraddizione con la propria ontologia. A questa ribellione dell’uomo corrisponde l’amore infinito del Mistero, la misericordia. L’uomo incomincia il cammino alla verità di sé riconoscendo la propria miseria e desiderando il proprio cambiamento.
Il desiderio e la domanda sono l’inizio dell’imitazione di Dio, della tensione cioè a far diventare la nostra realtà simile alla Sua: l’uomo, infatti, non può imitare Dio nella sua capacità creatrice, ma nel suo comportamento esistenziale. Cristo è colui che viveva il comportamento di Dio. La vera rivelazione di sé all’uomo Dio l’ha fatta, perciò, diventando uomo in Gesù Cristo. Le caratteristiche dell’amore rivelatosi in Cristo sono tre: l’agape della Croce, l’amore «per tutti» e l’amore secondo tutte le componenti umane di simpatia e tenerezza.
Caratteristica di questo soggetto nuovo che nasce dal rapporto con Cristo è il sentimento dell’appartenenza. Tale coscienza è l’espressione più immediata di una verità ontologica dell’uomo, quella di essere creato. Passare dall’io come possesso di sé al sentimento di sé come appartenenza è, nondimeno, un sacrificio. Questa «nuova nascita» che sembra così difficile da realizzare all’uomo è possibile però a Dio: questa è la speranza cristiana.
Se la sua presenza decide della percezione che uno ha di sé, appartiene di diritto alla compagnia di Cristo il ricapitolare nella sua persona il significato di ogni cosa. Così, se la cultura è coscienza critica e sistematica della realtà, la fede è l’avvenimento culturale per eccellenza perché è incontrare il significato di tutto dentro ogni particolare. Come l’educazione, anche la cultura si attua attraverso una disciplina unica: aderire al fatto della presenza di Cristo nella storia senza escludere nulla da questa adesione. Ciò che nella fede fa giudicare il valore delle cose non è più, infatti, l’enigmatica e confusa profondità della nostra esperienza elementare, ma lo sguardo a Cristo, parola definitiva di Dio sulla nostra umanità. Se per Gesù Cristo, uomo, il luogo di tale certezza stabile era la compagnia del Padre, anche per noi, a maggior ragione, è necessario un luogo, la Chiesa.
Per seguire ciò che dà fisionomia alla vita occorre stare, allora, in quel mistero in cui la presenza di Cristo si cela e si rivela. Il dramma è che l’uomo, pur chiamato ad aderire al progetto di salvezza che Cristo è, tende a privilegiare i suoi sogni. Gesù Cristo, come immagine compiuta d’uomo, è in assoluto l’unica realtà che storicamente abbia promesso all’uomo la salvezza dicendogli che tutto della sua umanità si sarebbe potuto compiere. Il gesto dell’offerta, che riconosce Cristo come sostanza di tutta la vita e desidera che Egli si manifesti, compie allora la liberazione dell’uomo innestandolo sulla pianta prolifica della redenzione. La radice dell’immoralità, infatti, non è peccare, ma non camminare verso qualcosa; l’ascesi cristiana, invece, non è vivere prescrizioni particolari ma la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione della vita.
Parte seconda – Decisione per l’esistenza
L’esistenza rappresenta innanzitutto una decisione che continuamente si ripropone riguardo a ciò che si riconosce come significato di se stessi. Il criterio del nostro animo e delle nostre decisioni sta nell’aderire alla presenza di Dio. L’uomo, invece, che ripone la sua certezza e la sua gioia in qualsiasi altra cosa è «maledetto», cioè condannato alla tristezza e al disagio. Ciò che a noi manca per una vera adesione è la semplicità del cuore, quella del bambino, che è tutta stupita dell’espressione di un Altro.
Dio non conosce altro metodo per far crescere l’uomo se non quello di proporgli una presenza da seguire. Questo, tuttavia, non vuol dire copiare in modo meccanico; la sequela è un fenomeno umano che richiede l’impegno delle energie che più descrivono la personalità (intelligenza e volontà). Dopo la venuta di Cristo l’affidarsi a Dio si concretizza nel seguire la comunità cristiana che continua nel tempo e nello spazio la presenza di Dio.
Questa presenza ci invita a compiere un’esperienza in cui verificare la proposta offerta. Fare ciò significa in primo luogo aderire al richiamo che viene fatto con tutta la capacità critica di cui si è capaci e, in secondo luogo, seguirlo con tutta l’energia della nostra volontà. La verifica della proposta cristiana deve portare in sé il pegno della soddisfazione piena: l’esperienza del centuplo. Il sentimento che abbiamo del significato della vita sarebbe vano, perciò, se non ci rendesse capaci di generare il pezzo nuovo di mondo nell’ambiente dove siamo chiamati vivere. Sperimentare la coscienza di essere costituiti da un Altro, è portare a galla la promessa fatta da Cristo risorto: un’umanità trasformata dall’incontro con la verità. Il cammino di questa conversione è semplice, come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, infatti, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero.
Parte terza – Moralità: memoria e desiderio
Testimoniare la fede all’interno del proprio stato di vita è il compito specifico del cristiano. L’esperienza cristiana si sviluppa, allora, secondo i seguenti punti: 1) la coscienza viva che la salvezza ha una risposta in una realtà già presente nella vita dell’uomo 2) la presenza di Cristo si manifesta attraverso l’esperienza della Chiesa 3) la coscienza esistenziale di ciò che la fede è, e quindi di ciò che Cristo è, non sono frutto di un ragionamento, ma di un incontro umano 4) un cambiamento veramente nuovo non può venire se non dal di fuori dell’uomo (questa è la grazia della presenza di Cristo riconosciuta e amata nel mistero della Chiesa) 5) la comunità cristiana viva affronta tutti i problemi della società nella coscienza della sua fede in Cristo e nella coscienza del suo appartenere alla Chiesa. La fede crea un soggetto nuovo, «umanizza» l’uomo. Il compito della comunità cristiana per collaborare a questa nuova creazione consiste, dunque, nella maturazione della sua fede, perché in essa sta l’ideale capace di modificare l’avventura umana.
In questo cammino di ascesi la preghiera coincide col prendere coscienza di Dio, della propria originale dipendenza. L’accorgersi che la propria vita dipende integralmente da Dio si traduce nella domanda di attuare il proprio vero io, cioè di aderire alla volontà di un Altro. Come ogni altra realtà spirituale in questo mondo anche la preghiera si avvera nell’umiltà di alcune condizioni materiali: il tempo e le forme d’espressione proprie dell’uomo (pensiero, parola, gesto). Ma l’uomo è debole ed incoerente; pur conoscendo il dovere, infatti, non lo compie per pigrizia. Si può comprendere, allora, il valore delle formule di preghiera (parole fisse) o dei riti (gesti fissi). Una condizione umana che la preghiera assume è l’espressione comunitaria: essa non solo non è un limite all’esperienza della persona, ma la realizza al massimo della sua espressività.
Questo nuovo contenuto di coscienza è, letteralmente, la memoria di Cristo e la liturgia è l’educatrice a questo modo vero di preghiera. Cristo stesso ha fissato la struttura della propria espressività, la forma suprema della preghiera come memoria: il sacramento, di cui il battesimo è l’origine e l’eucarestia il fine. Vivere il sacramento, dunque, è vivere nel concreto dei rapporti la salvezza che è già data.
Se la preghiera esprime la coscienza originale del cristiano la santità è la stoffa propria della vita cristiana. Il santo non è, infatti, un superuomo ma un uomo vero perché aderisce a Dio, cioè all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore. Egli più acutamente e drammaticamente degli altri vive l’esperienza della fragilità. La coscienza vivida della propria originale impotenza gli fa sperimentare una mortificazione il cui fiore è la povertà di spirito. Il povero, infatti, accetta con semplicità il paradosso che la maturazione di sé debba passare dentro la stranezza della rinuncia e attraverso la misteriosa permissione del male.
Soltanto la compagnia del figlio di Dio rende alla vita di un uomo la capacità di realizzazione proporzionata al suo destino. Ciò che brama il santo, quindi, non è la santità come perfezione, ma la santità come incontro, adesione e immedesimazione con Cristo. Il tema morale non coincide tanto con lo spogliarsi di sé, se non come risultato del ricercare Cristo: il santo, infatti, non rinuncia a qualcosa per Cristo, ma vuole Cristo, il solo avvenimento che può liberare l’energia del suo io. Lungo il fluire storico, santo è chi è stato chiamato a riconoscere e a vivere il mistero del Cristo nella Chiesa. Quest’ultima appare sempre più, nel cammino della vita, l’unico ambito in cui la moralità diventa possibile, sia come sforzo diuturno che come esito. Questa è la responsabilità che abbiamo in mano: non immediatamente la nostra virtù, i nostri progetti o sentimenti morali, ma l’accorgersi di Qualcuno che ci è accaduto.
Conclusione – La Chiesa come luogo di moralità
La figura morale è l’uomo che vive l’atteggiamento originale in cui l’ha plasmato il gesto creatore di Dio. Il volto umano si edifica nell’adesione alla sua presenza. Ma l’obbedienza a lui impone il riconoscimento del luogo dove l’opus Dei s’applica a noi: la Chiesa. Essa è il luogo di questo dono di chiarezza e sicurezza del rapporto tra l’uomo, le cose e il tempo. La certezza che il tempo è favorevole, l’inclinazione affettiva al giusto, la forza della volontà maturano come conseguenza. Per l’homo viator il segno-memoria è l’eucarestia, ma essa si dilata e si esplicita in un segno più grande, la Chiesa, alveo adeguato della presenza «della pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose». L’immanenza di sé al mistero della comunione ecclesiale fa penetrare l’io, come per pressione osmotica, in una misura nuova che rende la vita capace di sperare «contro ogni speranza».