Introduzione. Se avesse avuto tempo da perdere. Il peccato più grande contro la propria vita e il proprio destino è insistere sulla propria incapacità. Dio ha la forza di portare avanti, per compierlo, ciò di cui si è incapaci. Allora tutto diventa chiaro e niente resta menzogna. Se l’angelo che visitò Maria avesse avuto tempo da perdere avrebbe insistito proprio su questo: a Dio nulla è impossibile.
I Una strada umana
Incollamenti e strappi. La facilità a cogliere la positività delle cose è data per diventare più grandi, ossia comprendere che è positivo e favorevole al compimento personale anche ciò che è sacrificio. Tutta la realtà – l’Autore usa il termine di “evidenza” –, la cui stoffa è l’Essere, ha sopra come una colla: se gli si passa vicino, ci si attacca, e nella misura della forza di questa colla, ci si ferma. Se però si vuole raggiungere la meta del cammino occorre strapparsi da queste evidenze. Chi cerca di vivere questa tensione alla meta, strappandosi continuamente (sacrificio) dagli “incollamenti” a cui le evidenze lo provocano, giungerà alla gioia. Tale esito umano non si realizza nell’altro mondo, ma già in questo mondo, perché la gioia è profezia della felicità eterna.
Perché mi è data questa umanità? La cosa più importante è sentire la propria umanità. È un positivo ciò da cui può partire tutto. Prendere coscienza del fatto che tutto ciò che si può fare è domandare, fa intravedere la domanda come una grande impotenza chiamata all’abbraccio del divino. Uno può sentire una grave tentazione, ma questa non è una cosa “demoniaca”: è una potenza del corpo e dell’anima, è una umanità. Sorge allora la domanda: «Perché mi è data questa umanità?». È questa la domanda che si infiltra se uno capisce che la tentazione come istinto è una positività umana, è una capacità umana, è una umanità.
L’implicazione totalizzante. L’implicazione affettiva totale non è una cosa che si è capaci di realizzare perché lo si decide. Essa coincide con il contenuto di una domanda. Dire «implicazione totale dell’affettività» equivale a dire «applicazione dell’affettività in modo tale che sia totalizzante». Però, mentre un’applicazione dell’affettività che sia totale è immaginabile come l’oggetto di uno sforzo, l’implicazione della affettività in modo che sia totalizzante vuol dire che riguarda ogni atto che si fa. In questo senso la parola “totalità” non indica tanto una misura dell’implicazione, ma l’orizzonte della stessa. Questo sì è sperimentabile.
II Cristo, sorgente dell’affezione
Prima c’è la bellezza. Il sacrificio è suggerito dalla fede. Infatti prima viene la verità, poi il distacco, perché il distacco è ciò che assicura la verità del rapporto. Prima c’è la bellezza, l’aspirazione alla bellezza o l’ammirazione per la bellezza, poi ci si accorge che, perché questa rimanga, bisogna che non la si manipoli. Cioè la si deve sacrificare. “Sacrificare” vuol dire affermare la bellezza secondo l’ordine che essa ha con tutte le cose, secondo l’armonia generale. A questo sacrificio, tuttavia, anche se è evidente il suo esito positivo, non si può resistere se non c’è Cristo, cioè se non si possiede la sicurezza di non perdere per l’eternità ciò che si ama.
La preferenza per Cristo. Occorre rendere preferenza umana la presenza di Cristo. Questo altro non è che il cristianesimo nella sua espressione più acuta, che si chiama verginità. Vivere una preferenza umana significa sperimentare una commozione umana più forte e più profonda delle altre. Perché questo avvenga è necessario, in primo luogo, essere fedeli alla strada, cioè alla compagnia. Questa fedeltà rende facile, visibile e sensibile quello che non sempre è visibile e sensibile. Dato, però, che l’uomo è incapace di essere se stesso da solo, occorre la domanda. Quindi compagnia e preghiera costituiscono il vero richiamo alla memoria.
Non è un pretesto. Vedere Cristo nelle persone e nelle cose altro non significa se non guardare le persone e le cose penetrandole fino alla percezione della verità che le costituisce. Perciò amare qualcuno o qualcosa significa amare Cristo nell’altro o nella cosa. Non significa prender l’altro come pretesto. Amare Cristo nell’altro è una modalità nuova nel guardare, vivere e percepire il rapporto con l’altro. Infatti l’amore tra l’uomo e la donna è vero se ciascuno dei due riconosce che l’altro è il punto in cui il Mistero lo predilige.
III Il sacrificio come condizione
Il cuore della questione. Il peccato più grave è la mancanza di testimonianza e di missione, perché l’affermazione dell’Essere – cioè del Mistero di cui ogni io è fatto – è il proprio cambiamento. Per vivere la missione occorre far vedere che si è cambiati: il vero miracolo continuo è il cambiamento dell’io, cioè che l’io inizia a vedere le cose in modo diverso, a sentirle in modo diverso. Il Mistero che fa ogni uomo non propone come purificazione di una circostanza l’eliminazione della stessa ma il cambiamento del rapporto con essa. Perciò, il cambiamento implica una fatica molto più grande che non quella dell’eliminazione della circostanza. Il sacrificio aumenta proprio quanto più uno cambia. Per questo parlare del sacrificio significa toccare il cuore della questione: quanto più si assomiglia a Dio tanto più si assomiglia a Gesù, la cui esistenza ha come cuore la croce.
Secondo l’armonia generale. Il sacrificio è quello che impedisce di andare contro le leggi morali, contro le leggi di Dio. Se questa definizione fosse sufficiente, tuttavia, si potrebbe diventare subito moralisti. Bisogna, infatti, capire che cosa è una legge morale, ossia che cosa è un valore. Il valore è ciò per cui un determinato oggetto segue l’ordine dell’armonia generale; non dissolve, non corrompe, non sospende l’armonia generale. Perciò, compiendo un sacrificio, si afferma l’armonia generale; come Gesù, morendo in croce, ha affermato l’ordine totale. Quindi una legge morale descrive la traiettoria con cui una cosa viene usata secondo la “melodia” generale, ovvero secondo il disegno di Dio nel mondo. Usare le cose secondo l’armonia generale, tuttavia, costituisce per l’uomo un sacrificio perché egli ha una strana ferita al fondo di sé, per cui, invece di andare diritto, va storto. Questo fenomeno si chiama peccato originale.
L’affermazione amorosa. Che un dolore, un sacrificio, abbiano un significato positivo è una «scelta amorosa», cioè una scelta positiva del significato del vivere. La scelta positiva è una «scelta amorosa» perché afferma il valore di un presente. Affermare il valore di un presente mentre il presente si palesa come chiodi nelle mani, questa è la prova. La prima cosa che l’uomo ha dentro e che proprio nella prova sente – sia che la risolva positivamente, sia che la risolva negativamente – è una simpatia originale per l’Essere. Questa consiste nella natura propria del cuore, perciò è una «scelta amorosa» la soluzione positiva mentre è connivente la «scelta negativa». La scelta tra il no e il sì è una scelta tra un rinnegamento e un’affermazione amorosa.
Per rendere vero (1). Senza sacrificio non è vero il rapporto. Se il sacrificio rende vero il rapporto, la tensione al sacrificio è la tensione a rendere vero il rapporto. Infatti, se il sacrificio accade come esito di un itinerario di tensione ad esso, il sacrificio – paradossalmente – avviene come la soddisfazione di una tensione, come l’appagamento di una tensione. Comunque, non si può desiderare il sacrificio: si desidera affermare l’altro, si desidera l’amore. Il sacrificio rende vero il rapporto esistenziale o storico che c’è tra il soggetto e l’oggetto usato perché lo fa rientrare nell’ordine del creato, nel disegno di Dio. La ragione del sacrificio è la volontà di Dio. Se uno fa un sacrificio è supposto che lo faccia con ragione, cioè con la coscienza di una Presenza. In questo senso, brachilogicamente, si può dire che non si può fare un sacrificio senza la fede.
Per rendere vero (2). La volontà di sacrificio è volontà di domanda che il Signore renda capaci di un sacrificio che da soli non si sarebbe capaci di fare. Senza il sacrificio non si ha accesso a un livello più vero di esistenza: la profondità tanto è soggetto di stupore e di attrattiva quanto esige un sacrificio per essere scoperta. Diversamente la profondità si prefigura come una profondità solo estetizzante; è una vibrazione estetica ma non una verità. La profondità e il sacrificio sono sempre pari perché una profondità che non implicasse un adeguato sacrificio sarebbe una profondità astratta. Il sacrificio, invece, da ciò che appare porta a un altro livello dell’esistenza e fa emergere di più la verità del reale.
Situazione temporalesca. La tentazione non colpisce la vita come una folgore a ciel sereno. Essa assomiglia di più ad una situazione temporalesca: ha una sua durata. Infatti la cosa grave quando, comunque inizi, la tentazione tenda ad essere un seme nella vita. La responsabilità più grave, paradossalmente, non sta nel cedere alla tentazione, ma si situa nel cedere alla permanenza del ricordo: la memoria in senso contrario. Favorire la tentazione è un malinconico ed equivoco cedere al niente. Lasciarsi impressionare dall’immagine che si è vista, dall’immagine di ciò che si è fatto, dal valore morale percosso nella propria attività, questo è l’errore. In ogni caso, non si può avere paura di queste immagini perché, nel deserto della vita, c’è una corrente di vita che corrisponde alla forza della scelta che un Altro ha fatto di ognuno.
IV Mistero e segno coincidono
L’adorazione possibile. In primo luogo l’offerta è il riconoscimento che Cristo è ciò di cui è fatta la realtà. In secondo luogo l’offerta consiste nello struggimento di una rivelazione. Dunque essa è un atto di riconoscimento o di fede e un atto di amore, di affermazione. L’offerta consapevole è l’esperienza di un possesso completo, di un’adorazione. Infatti, se non si adora un oggetto, non lo si possiede veramente. Per comprendere cosa sia l’adorazione bisogna pensare all’amore per una persona: è molto più grande l’intensità dell’amore quando ci si ferma ad un metro e ci si trattiene da una presa puramente meccanica. In quel momento si vuole molto più bene alla persona che neanche se la si afferrasse con tutte e due le mani. Dunque, l’adorazione è come l’offerta, nel senso che implica riconoscere che Cristo è consistenza di quella presenza.
La distanza è esser dentro. La profezia coincide con l’essere destinati ad esser fattori del disegno totale, a cambiare la storia. Che si cambi la storia significa portare, dentro il tempo che passa e dentro i rapporti con le cose che questo tempo alimenta, la ragione per cui Dio ha creato tutto: Dio stesso. E Cristo è Dio diventato carne. Carne significa tempo e spazio. Un giudizio nasce anch’esso dal tempo e dallo spazio, si avvera nel tempo e nello spazio; nel tempo e nello spazio il giudizio diventa sempre più vero, perché percepisce i rapporti tra le cose da una distanza sempre più adeguata, che è la distanza di Dio. La distanza di Dio dalle cose è l’essere dentro «nel midollo delle cose». Per questo «la distanza è un esser dentro».
Preferenza e segno. La preferenza è un segno del Mistero. Qualsiasi cosa, tuttavia, in quanto è e in quanto appartiene al rapporto col Destino, è un segno del Mistero. La preferenza però è un fenomeno particolare. Essa si manifesta come misericordia pedagogica con cui Dio si rivela, si comunica in un modo più semplice, più facile, più fecondo rispetto ad un altro modo di cui rivestisse la Sua presenza. La preferenza è una modalità di fatto che Dio ha assunto per facilitare il cammino di ciascuno a Lui. Se non ha questa funzione la preferenza è una ingiustizia perché una realtà sarebbe trattata diversamente da un’altra realtà senza ragioni adeguate. La preferenza, se non è usata secondo questo scopo, viene usata contro Dio: per dimenticarsi. Per questo la preferenza è una responsabilità.
V Una dimora come metodo
Un luogo. Il Mistero si rende presenza in un punto di intersezione tra tempo e spazio: si chiama luogo. Per diventare presenza il Mistero si è dovuto servire di un luogo, di un tempo e uno spazio, che sono le due componenti della realtà da Lui creata. Egli è diventato soggetto alla sua creatura. Il tempio, originalmente, si poteva identificare con il creato. Ma, con Cristo, non fu più possibile all’uomo fermarsi a quello perché incontrò un altro uomo come lui che di se stesso disse: «In me tutto consiste». Il tempio non fu più il cosmo, ma il luogo dove il Mistero ha detto: «Io sono». Il primo tempio, perciò, fu il seno della donna in cui nacque quell’uomo; e la dilatazione del tempio fu la casa dove quell’uomo visse; e poi, la realtà umana che lo riconobbe, il gruppo di uomini che fluì nel tempo fino ad oggi.
Per la tua corsa nel mondo. Dimora vuol dire una realtà in cui tutto quello di cui si ha esigenza è dato. Per ciascuno la dimora è quel luogo dove quello di cui si ha bisogno c’è. Il compito della vita è quello di dilatare la dimora in cui Dio fa nascere. Si chiama vocazione. Per questo la dimora è il punto di partenza: è il luogo che Dio fa e in cui mette ciascuno perché ognuno possa incominciare ad imparare. È, infatti, il luogo in cui la misericordia di Dio si rende sensibile. La dimora, dunque, proprio per questa sua natura, introduce «alla corsa nel mondo», alla corsa nell’universo, fino agli estremi confini della terra. È Dio che pone ogni uomo nella propria dimora perché questa, esaltando il suo umano, lo rilanci fino agli estremi confini della terra.
Il legame più forte. C’è una appartenenza che lega all’altro al di là di qualsiasi tipo di preferenza. Infatti, c’è una ragione di legame tra i cristiani che è più forte di qualsiasi difficoltà questi possano registrare nei rapporti tra loro. Questo avviene perché si tratta di un rapporto stabilito da un motivo tale che attraversa tutte le condizioni umane. Un conto è l’esser uniti (convivenza) quando, per assenza di problemi gravi, di notizie brutte, di contraddizioni laceranti, si è lieti e il clima è leggero. Ma c’è una ragione, un legame, che unisce in modo così decisivo che neanche l’odio mortale verso l’altro sospenderebbe il rapporto. Questo legame – esito di una libertà – si chiama anche communio, comunione. La comunione è il diventar radice in ogni rapporto di quella forza con cui Cristo prende il corpo, il cuore e l’anima e assimila a Sé. La modalità del rapporto con Cristo è un legame ontologico di una forza tale che non c’è, per sé, nessuna possibilità di bello o di cattivo che lo possa contestare. Qui sta la necessità della memoria di Cristo.
Al cuore dell’apparenza. Affermare che Cristo è presente nella compagnia è affermare l’ultimo fattore che costituisce l’esperienza della realtà. La realtà è la compagnia in cui ciascuno è messo, ma l’ultimo significato di questa compagnia è Cristo presente. Se non Lo si afferma, perciò, non si afferma la totalità dei fattori di questa compagnia. Questa affermazione è la fede, ovvero il vertice della ragione. Il dovere di ognuno è scoprire e vivere questo fattore ultimo. Si può vivere la compagnia in modo da godere un ambito così, eppure arrestarsi sulla soglia del riconoscimento del motivo adeguato, del fattore vero che innanzitutto ha messo insieme la compagnia stessa. È solo l’Eterno che fa capire ciò che si ha davanti, la compagnia, per sempre. Perciò quel che si vede è l’apparenza; ma è necessario lasciarsi trascinare dall’apparenza fino al cuore dell’apparenza stessa, che è un Altro. Non è un’apparenza, è un Altro. Questo recupera anche l’apparenza, non la fa dimenticare, la fa stringere di più.
VI Il metodo nella dimora
La radice della compagnia. Senza Gesù, cioè senza l’origine e il destino di ogni rapporto, fra due persone ci sarebbe un’estraneità insormontabile. Senza la realtà di Cristo l’estraneità dominerebbe la vita degli uomini, anche là dove si crede di volersi bene. C’è un valore sacro della compagnia, permanente, che tocca alle radici del proprio essere. Il motivo per cui due cristiani si trovano insieme si chiama nascita nuova, generazione nuova: il Battesimo. Se c’è questa coscienza nel cuore, allora sì che si vive la compagnia in un altro modo. Non la si vive pretendendo, ma donando; riconoscendo, non subendo; perdonando, non cercando una giustizia. In questo senso se uno vive veramente la radice della compagnia è libero di fronte a tutti gli altri. È libero, perché ama tutti. Anche se lo schiacciassero sotto i piedi, li ama.
La lotta di Tersite. Il miracolo – vale a dire la testimonianza che Dio è diventato uomo, è tra gli uomini e sta vincendo il mondo – è la compagnia vocazionale. La testimonianza a Cristo, cioè, è una compagnia umana diversa, nuova; il che vuol dire che sono diversi gli uomini che la compongono ed è diverso l’effetto che questa compagnia realizza. L’elemento davvero qualificante è infatti la consapevolezza dello scopo che rende i molti una cosa sola. In una compagnia del genere, l’atteggiamento che c’è tra gli uni e gli altri è l’avere pietà, cioè accettare le cose come sono, accettare se stessi. Avere pietà vuol dire accettare la modalità con cui una persona è condotta al destino. Esattamente come Cristo ha avuto pietà di chi lo ha messo a morte, che era pieno di bestemmia e di dimenticanza di Lui.
La discrezione. Il perdono, la pazienza con se stessi, la comprensione che identifica tutti i fattori possibili del proprio atteggiamento, la disponibilità a ciò che fa diventare più grande, sono tutti elementi mantenuti dalla discrezione verso se stessi. Infatti, la discrezione è un atteggiamento fondamentale che rispetta la libertà, altrui e propria. La discrezione è quella che fa stare con rispetto religioso di fronte all’altro, che fa chiedere «permesso» prima di entrare, in qualsiasi cosa; che fa dire «grazie» qualsiasi cosa venga data. Lo stesso Mistero si manifesta ai nostri occhi con discrezione. Anche noi, dunque, dobbiamo trattare il Mistero con discrezione, altrimenti si dice «tu» senza Mistero.
Un altro mondo. Genus et creatur Christicolarum vuol dire che viene creato un tipo d’uomo nuovo, un tipo di genere umano diverso: la razza di quelli che amano Cristo. Christicolarum vuol dire Cristo sorgente di cultura, Cristo sorgente di giudizio, Cristo sorgente di affezione. Non si tratta solamente di un certo tipo di abitudini. È un altro mondo, dove le cose hanno un altro valore, senza paragone rispetto al modo di tutti, al punto che un estraneo che stesse a guardare con le braccia conserte, amerebbe capire e gustare anche lui, perché è più giusto, è più completo, è più. Bisogna arrivare al punto in cui consapevolmente uno s’accorge che è un altro mondo, dove le cose non solo non son perse, ma neanche una virgola è cancellata. Se, infatti, per seguire Cristo dovessi cancellare qualcosa, non crederei più a Cristo.
Sul nostro fragile sì. Il mondo scarta la capacità affettiva, nel senso che quando si costruisce qualcosa lo si fa normalmente per un tornaconto. Questo atteggiamento è comprensibile, se si considera la drammatica incapacità affettiva di ciascuno. Il problema dunque resta aperto: o si è vittime di ciò che ci circonda oppure la disperazione. Nella storia, tuttavia, è accaduto che il Mistero di Dio, cioè lo Spirito che ha fatto il mondo, è entrato dentro il mondo. Nel rapporto con Lui, dunque, la capacità affettiva di ciascuno è presa e, da pietra scartata, diviene pietra d’angolo. La capacità affettiva è fattore di gratuità. Questo accade grazie al sì detto di fronte all’annuncio. Per questo l’opus Dei avviene sul fragile sì di ognuno.